archivio per novembre, 2009

Wittgenstein e il ctrl + z

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Se le interfacce sono una simulazione sempre più perfetta della realtà non dobbiamo dimenticare che restano, appunto, una simulazione.
L’affermazione è meno banale se pensiamo alla più peculiare differenza fra realtà ed interfaccia: la reversibilità delle operazioni.
Ciò che infatti caratterizza il virtuale – che esso sia il volto bidimensionale del mio sistema operativo o una complessa simulazione a tre dimensioni per l’apprendimento delle tecniche di aviazione o ancora una esperienza “immersiva” di gioco – è la possibilità di muoversi avanti ed indietro nella scala temporale, con la possibilità di forgiare la realtà attorno alle nostre azioni, che in questo modo si moltiplicano e (dovrebbero) perfezionarsi.
Ad un corso di alfabetizzazione informatica un mio amico, per far comprendere l’operazione crtl + z – quella comunemente denominata “annulla” – ha portato un esempio che ha stupito più d’uno degli auditori. È – diceva – come se mi cadesse il telefono frantumandosi in mille pezzi, ed io potessi tornare indietro nel tempo. Una signora ha quasi applaudito per la geniale trovata.
Le interfacce sono una forma totalizzante di linguaggio, perché combinano tutti o quasi gli universi segnici, in modo verticale, cioè simultaneo. Con il linguaggio d’altronde le interfacce condividono, ed anzi potenziano, l’artificio semantico della metafora: il caso più lampante è l’organizzazione dei sistemi operativi in “finestre” (ma su cosa affaccino queste finestre, poi, nessuno sarebbe capace di spiegarlo…).
In quanto iper-linguaggi le interfacce possono essere considerate delle iper-metafore.
Il gioco di specchi delle metafore sempre impiegate dal linguaggio, il quale così si delinea come metafora totalizzante del Mondo, spingeva Wittgenstein ad affermare che il linguaggio non solo descrive il Mondo, ma ne significa i limiti.
«La proposizione è un’immagine della realtà: Infatti io conosco la situazione da essa rappresentata se comprendo la proposizione. E la proposizione la comprendo senza che me ne si dia il senso.» (Tractatus, 4.021). Ma, prosegue il filosofo, non potrò mai spiegare se non con delle altre proporzioni, il rapporto che intercorre fra queste ed il Mondo.
Bel problema.
Cui si aggiunge la contrapposizione fra dire e mostrare: il “cono d’ombra” del linguaggio, ciò che esso non può dire, è «ciò che può essere solo mostrato». È questo ultimo dettaglio che completa il quadro sulle interfacce, linguaggi tanto più autoritari in quanto potenziano la metafora, in un “dire che può essere mostrato”.
Se la realtà è sempre più contenuta nella metafora del virtuale come cambia il nostro rapporto con il Mondo?
Non saprei dire.
Ma la cultura che ha prodotto le interfacce, in esse descrive il suo preciso rapporto con la realtà, una realtà che si fa elastica e che può facilmente essere piegata al proprio volere. Pensaci. Quanto e come pensiamo di forgiare il Mondo al nostro volere, oggi?
La signora che si stupiva e desiderava impiegare il comando annulla nelle cose della sua vita, probabilmente si convincerà, un giorno, che anche la sua esistenza può essere annullata o riavviata.
Rewind.
Shut-down.

Calder al Palazzo delle Esposizioni. Il moto del cosmo.

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Ugo Mulas. Alexander Calder con Snow Flurry, Saché 1963

Ugo Mulas. Alexander Calder con Snow Flurry, Saché 1963

Oggi meno nominato di altri artisti dell’avanguardia storica, Alexander Calder è tuttavia un autentico gigante dell’arte contemporanea, cui si deve l’apertura della scultura al movimento, in quella che potremmo considerare come una declinazione in chiave “cosmologica” del realismo.
Lo si potrà verificare fino al 14 febbraio a Roma, al Palazzo delle Esposizioni, che ne ripercorre l’attività con una mostra che riunisce oltre 150 pezzi fra tele e sculture, completata dalla proiezione di alcuni rari film legati al percorso artistico di Calder e da un interessante appendice fotografico in due sale, dedicato agli scatti di Ugo Mulas, che negli anni ’60 conobbe Calder a Spoleto e ne documentò la tarda attività del grande capannone-studio di Saché, in Francia.
La retrospettiva, rigorosamente cronologica, muove dal primo contatto con l’arte – cui Calder approda abbandonando la professione di ingegnere, per abbracciare un linguaggio circense “delle attrazioni” sviluppato già dalla tenera età – fino alle sculture giganti della tarda attività.
È un percorso compatto, caratterizzato da una grande abilità tecnica (e tecnologica) e da una straordinaria coerenza estetica: Calder si esprime infatti per forme ricorrenti, eppure sempre cangianti, costruendo sculture-macchine ad imitazione dell’infinita replicazione di atomi e particelle e dell’eterna mutazione della materia.
Una sorta di ricerca cosmologica, dicevamo, a stimolare la costruzione dei tenui e delicati equilibri dei “mobile” (la definizione fu coniata nientemeno che da Marchel Duchamp) cui Calder dedicò tutta la sua carriera artistica.
Si tratta di sculture costruite sul principio del cambiamento: strutture penzolanti composte da bilancieri in ferro agganciati l’uno all’altro e dai quali pendono sottili lamine di metallo laccato. Ne risultano una serie di strutture mobili, appunto, dove la materia si declina in serie imprevedibili ed infinite di forme astratte, fatte dall’interazione fra masse, gravità e “environnement”.
Labili e variabili a seconda delle turbolenze dell’aria e dei fattori ambientali più disparati, queste sculture acquistano così una sensibilità all’ambiente, reagiscono al passaggio del visitatore, verificano gravità ed equilibrio, simulano l’espansione perpetua del cosmo, descrivono galassie e sistemi stellari insoliti e poetici, sognano dell’esistenza del moto perpetuo.
Ugo Mulas. Alexander Calder, Saché, 1963.

Ugo Mulas. Alexander Calder, Saché, 1963.

È come se l’arte astratta di Joan Mirò e Vasilij Kandinskij – le loro esplosioni di geometrie e colori – diventassero improvvisamente degli oggetti. Se negli anni ’30 il gruppo surrealista esplorava l’impatto delle macchine celibi sulla sensibilità, Calder sembrerebbe rispondere nella stessa epoca con delle “macchine a vento” tutt’altro che celibi, ed anzi “dialoganti”, in un’apertura dell’opera al mondo che per certi versi anticipava il gioco delle interazioni delle nuove avanguardie con lo spazio urbano e museale.
Laddove infatti le sculture ed i ready made surrealisti assumono toni foschi e perturbanti, ottenuti mediante un mutismo enigmatico, le opere di Calder respirano il cosmo, ne captano moto e particelle, riallacciando un contatto “descrittivo” con la realtà.
Il discorso di Calder sul reale assume anche maggiore coerenza se guardiamo ad altri momenti della sua produzione, parimenti presenti nella mostra di Roma: quello più precoce, risalente al periodo del “Cirque Calder”, quando cioè l’artista allestiva mini-spettacoli impiegando macchine e pupazzi in fil di ferro; e quello più tardo in cui i “mobile” lasciavano il posto ai loro antagonisti, gli “stabile” (stavolta la definizione fu di Jean Arp), grandi escrescenze ferrose che dalla terra si innalzano verso l’alto, creando angoli, curve ed anse a riconfigurare lo spazio circostante.
È proprio i questi segmenti cronologici che scopriamo l’ossessione calderina per lo studio delle forme, in particolare nella prima fase, in cui la tendenza descrittiva di cui dicevamo si esprime nei tratti sintetici delle delle “wire sculture”, intrecci poetici di filo di ferro che compongono figurini d’uomini ed animali.
Completa ed appassionante, la retrospettiva romana su Alexander Calder offre l’opportunità di riscoprire questo grande artista del Novecento e, di fatto, parte della genesi della rimodulazione in chiave interattiva ed urbana dell’arte contemporanea.

Quattro oranghi a piazza Venezia

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oranghi a piazza Venezia per Greenpeace

oranghi a piazza Venezia per Greenpeace

oranghi a piazza Venezia per Greenpeace

Stamane alle 9 circa a piazza Venezia, la surreale visione di due oranghi arrampicati sui grandi pini marittimi dei Fori, mentre altri due se ne stanno stesi a sonnecchiare all’ombra della Colonna Traiana.
Mentre scrivo è probabile che gli oranghi siano ancora lì, in attesa della polizia che se li porterà via, potete contarci.
E non tanto per una questione zoologica, ma politica.
Già, perché gli scimmioni in questione stringevano striscioni e manifesti all’indirizzo niente di meno che di Silvio Berlusconi, per protestare contro la deforestazione indonesiana ed invitare l’onorevole presidente a presentarsi al vertice sul clima di Copenaghen, previsto per la prima metà di dicembre, e già in aria di triste naufragio.oranghi a piazza Venezia per Greenpeace
Un manifesto firmato Pongo Pygmeus, e stampigliato con il logo di Greenpeace espone la rilevanza della questione Indonesiana, la cui deforestazione è una delle catastrofi ambientali più serie del globo. L’isola dell’Oceania occupa infatti il terzo posto nella classifica mondiale delle emissioni di CO2, dopo Cina e Stati Uniti.
Come può un paese così piccolo inquinare quasi quanto i giganti industriali del pianeta?
oranghi a piazza Venezia per GreenpeaceCe lo spiegano gli oranghi, inquilini di una foresta vergine che sorge su un vasto strato di torba, nel quale sono intrappolati circa due miliardi di tonnellate di carbonio. Gli incendi e le ruspe che fanno spazio alle coltivazioni di palma, permettono così a questa immensa quantità di carbone fossile di sprigionarsi nell’atmosfera.
oranghi a piazza Venezia per GreenpeaceÈ una vera tragedia ambientale, che mette a rischio la salute del pianeta, la nostra, e nell’immediato quella degli oranghi e delle popolazioni locali.
Ma potrebbe essere arrestata con decisioni concrete e soprattutto col denaro: Greenpeace calcola che con 30 miliardi di euro l’anno le foreste del globo potranno essere finalmente messe in sicurezza.
oranghi a piazza Venezia per GreenpeaceIntanto i grossi oranghi sono così gentili da offrire al premier un biglietto ferroviario, per raggiungere la capitale danese.
Come a dire: basta solo un po’ di volontà.

Leggi qui il manifesto dell’iniziativa di Greenpeace

 

 

 

 

switch-off

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switch-off
Da oggi la tele si esprime solo per interminabili formicolii. E non avevo mai pensato a quanto fosse stuperno uno schermo formicolante.
Certe scoperte fanno bene all’anima.
Anche l’assenza della pubblicità fa bene all’anima.
Switch off.
E nel nero del segnale che se ne va – del segnale che muore e risorge digitale – ombre oscure hanno turbato la mia notte.
L’indecisione, intanto.
Avrei potuto comprarlo quel maledetto decoder.
Avrei potuto farmi un’esistenza televisiva nuova di zecca.
Avrei potuto approfittare della grande opportunità, la scelta che aumenta per l’utente soddisfatto.
La libertà del telecomando moltiplicata per 100.
Le facce della politica che mi si replicano su unmilionetrecentomilaCANALI.
E le visioni, sublimi e terribili.
Mi sfrecciavano nei sogni culi e tette rifatte.
Il botulino per il ragazzino.
I denti bianchi e le sfere colorate immerse in acqua a 40° (QUARANTAGRADI!).
Assorbenti e gonfiori di stomaco.
Nello scorrere interminabile della pellicola REM realizzo che nessuno potrà più informarmi sulle conseguenze di una corretta alimentazione.

E poi, le ombre più oscure di tutte.
Mi compare in sogno Maurizio Costanzo che si trasforma lentamente, inesorabilmente, in Jabba the Utt, e sbava, lento, sul mio cuscino.
Vuole rendermi suo schiavo.
Azzurrovestita come madonna televisiva, arriva lei. Maria de Filippi.
E la sua voce viene da una caverna profonda fino nel mezzo delle viscere della terra e le sue mani sono lunghe come quelle della Sorella Secca.

E poi c’è mia nonna, che mi chiama.
Dopo lo switch-off anche chi aveva già comprato il decoder dovrà partecipare al rito collettivo.
Il grande sortilegio digitale che tutti i canali imposta e riordina intelligentemente.
Magicamente.
—————- Hai già impostato i preferiti nel tuo decoder? —————-
Il grande sortilegio, si.
E mentre esercito la potenza dell’interfaccia lei, la nonna, dice.
“…perché c’avevo pure pensato a lasciare perdere… ma casa, oggi… m’ha fatto un’impressione strana”
L’elettricità era venuta meno, o meglio, l’elettricità impazziva sul fosforo, di formiche nere su polvere bianca.
E mancherà anche a tutti gli altri televisori stuperni l’elettricità.
Quelli lasciati a marcire nei container delle Oasi Ecologiche, che non si congiungeranno mai ad un decoder, benché nuovi, nuovissimi.
Essi non godranno dell’ebbrezza dei cento canali.

stupernità

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Meret Oppenheim, "scoiattolo", 1969
La stupernità è un tipo assolutamente particolare di stupidità.
Intanto, la stupernità è una stupidità moderna.
E dato che in una società illuminista e tecnocratica, d’umane sorti e progressive, quale la nostra, ci si illude che la modernità contenga in sé un alto tasso di intelligenza, potremmo tranquillamente osservare che – qui ed ora, cioè nel nostro cantone di mondo – la stupernità è un ossimoro: una stupidità intelligente.
Lo avevano capito già le avanguardie storiche che il nostro è un mondo di accidens, accidenti (o cose) calati nelle ambiguità semantiche dell’incidente.
Non è un caso che l’incidente sia a sua volta una stupernità, essendo il ribaltamento d’una funzione tecnologica, la conversione da un uso proprio ad un uso improprio di un oggetto che in condizioni normali reputiamo “intelligente”, (l’automobile, il treno, l’aeroplano, l’i-phone…).
E si spiegano con la meccanica dell’incidente anche il grande vetro di Duchamp e le foto di Man Ray che ne documentano la trasformazione in “allevamento di polvere”. Oppure l’orinatoio rovesciato e le stampelle che si fanno trappola, che squarciano il velo della realtà, sempre in ambito dadaista o surrealista.
Ed infine, una volta trasposti i principi di quelle avanguardie alla realtà, siamo arrivati all’opera d’arte totale, l’attacco alle Torri Gemelle, documentato – così come si documentano le performance – da migliaia di punti d’osservazione diversi e registrato sulla rete globale della conoscenza. Si scopre così che le regole del terrorismo sono le stesse della pubblicità: un messaggio può affiorare nel rumore dell’unica vera realtà, quella mediatica, solo a patto di avere il giusto grado di violenza.
Ma stupernità è anche quello che mi capita più o meno una o due volte alla settimana e che sarà capitato certamente anche a voi.
Accendo il portatile, mettiamo, per tradurre un testo; al che, un messaggio attrae la mia attenzione comunicandomi che alcuni aggiornamenti sono indispensabili. Non voglio mettere a rischio la mia preziosa memoria digitale e, apprensivo, decido di installare gli aggiornamenti. Torno alla mia traduzione. Ma proprio quando ho acquisito il giusto grado di concentrazione, il computer mi comunica che deve essere riavviato. Il disco rigido inizia a girare, qualcosa non va e per venti minuti il “sistema” resta piantato, mostrandomi lo sfondo colorato di una qualche foto presa in Messico o California. Apprensivo, ancora, seguo la luce del disco rigido lampeggiare. Attendo che finisca di scrivere (non so bene che cosa scriva tutto il tempo la mia macchina).
Spengo a mano.
Riaccendo.
Risentito, il computer mi comunica che non è stato spento correttamente. Lo avvio. In altri quindici minuti ho finalmente di nuovo il diritto di tornare alla mia traduzione, rapita per un’ora dalla stupernità, che ghigna dietro ogni ontologica catastrofe quotidiana.
Almeno fino ad ora (14 novembre 2009, h15:28) un comune elaboratore di testi non riconosce in stupernità nessuna parola: al tasto destro sulla parola sottolineata in rosso campeggia (in grigio) la scritta “nessun suggerimento”; né Google è in grado di suggerirmi una parola alternativa, per ottenere qualcosa di più dei 0 risultati (non) visualizzati.
Ma fra qualche ora questa mia ultima affermazione sarà falsa.
Basterà infatti digitare la parola nel motore di ricerca per avere il primo risultato. Questo.
Una faccenda assolutamente stuperna.

guardiamoci dagli umani: il giorno degli zombi

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Un manipolo di umani è rinchiuso in un bunker militare, al riparo dalla marea di zombi che ha invaso gli Stati Uniti.
“The day of the death” (1985) – “Il giorno degli Zombi”, in italiano – è l’ultimo capitolo della trilogia di George Romeo introdotta dai ben più noti “La morte dei morti viventi” (1968) e “Zombi” (1978).
Al centro della trama – girata con estetica rigorosa, ai limiti della video-arte, con immagini di rara e possente visionarietà – v’è il luogo letterario dell’assedio.
Mentre alla luce del sole gli USA sono ormai sotto il controllo dei non-morti, nell’ombra delle barricate e i sacchi di sabbia della caserma, gli ultimi sopravvissuti ingaggiano una lotta all’ultimo sangue per la vita.
Ma gradualmente il nemico numero uno non sono più gli zombi, che anzi, si fanno quasi innocui, ma i membri del gruppo, sempre più coinvolti da una spirale di follia e violenza.
Eccoli, allora, gli esseri umani, divisi fra scienziati e militari, fra logica disumana e violenza assoluta.
I primi sono diretti dal dottor Logan, folle e nevrotico dott. Frankenstein, che investe tutte le sue risorse nell’allucinata ricerca di schemi logici e sociali nel comportamento dei morti viventi. Le speranze di salvezza del gruppo sono così affidate al delirio d’onnipotenza di una scienza che smonta e rimonta cadaveri e che mette in scena sinistre conversazioni famigliari per educare all’uso della pistola lo zombi “Bub”, nutrito a piene secchiate delle viscere degli umani caduti.
Dall’altro lato della barricata troviamo il Capitano Rhodes, militare violento ed accecato dal potere, che minaccia tutti con la pistola e che innesca una catena di violenza incontrollabile in cui il gruppo è costretto alla prova estrema della morte per linciaggio reciproco.
In questo mondo pericoloso e crudele, dove il lato oscuro dell’uomo si esprime con sudicia e raccapricciante violenza, troviamo Sara, unica donna del gruppo, continuamente esposta al rischio della violenza carnale e per sua fortuna spalleggiata da due outsider: l’elicotterista John ed il tecnico radio suo compare, con i quali riuscirà infine a prendere il volo, in una fuga disperata dall’umanità e dai suoi sottoprodotti.
In questo splatter mozzafiato, in cui i dialoghi sono a tratti più importati dell’azione, gli esseri subumani sono ancora una volta per Romero la ghiotta occasione per attivare un corollario di metafore sulla società.
Dalla violenza codarda dell’esercito, che si eccita infierendo con sadismo sui morti viventi e poi sugli esseri umani, ad una scienza che fa lo stesso mescolando cadaveri in pezzi, ed ottenendo uno Zombi capace d’un amore rozzo e bestiale. E si arriva infine alla critica della civiltà americana e della sua tensione all’accumulo, di beni ed informazioni, resa vana dalla catastrofe della distruzione globale.

Sigillati nelle grotte, gli ultimi umani superstiti siedono su una pila di documenti dove sono registrati tutti i rischi per la sicurezza nazionale americana, dalla catastrofe naturale all’attentato.
L’ordine mondiale reganiano, la strategia della sicurezza totale e globale è inesorabilmente vano.
E neanche la lucida razionalità di Sarah servirà a dare un senso a questo lungo elenco di eventi, che nessuno, ci dice John, si degnerà mai più di leggere.

Requiem per Parigi

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requiem
Nel marzo 2006 Parigi m’innamorò.
Ed era la vita notturna a rapirmi. Dalla perpetua e sonnacchiosa Roma ad una capitale in cui era impossibile restare a casa.
Una capitale in cui le Notti Bianche erano all’ordine del giorno e non un’annuale eccezione alla regola.
All’epoca c’erano il Bal des Pianos alla ghigliottina, le domeniche danzanti al Théâtre de verre a due passi dai Grands Boulevards, la Générale des Arts nel cuore di Belleville, gli squat e le occupazioni artistiche, le crémailleres private che aprivano le porte ai passanti (mitica una serata casuale in un appartamento sul boulevard Voltaire), i balli alla Mer à boire. I bistrot roventi di fumo e concerti.
E poi c’erano i pic-nic sul bordo della Senna, al pont des Arts, sul canal St. Martin. Le birre gelate ai Trois frères, con la folla di avventori riversata per le strade del XVIII e gli organetti improvvisati in piena Montmartre.
Fu una lunga estate calda, quella.
Estate di sassofoni nella metropolitana e di tuffi nella Senna.
Bastava incamminarsi per la Buttes-aux-cailles per sbronzarsi, e cantare in strada scivolando a sud, in discesa verso un deposito ferroviario dismesso ed intrufolarsi poi nelle misteriose catacombe.
Certo, all’epoca Parigi già bruciava d’inquietudini e risse.
Era quello il tempo degli incendi e delle rivolte nelle Banlieu. L’epoca dello sciopero anti-cpe e dei lacrimogeni in strada e degli scontri a place Nation. L’epoca delle notti bianche con le coltellate in pieno centro e dei capodanni irrorati d’alcol e violenza.
E quindi si reagì. Con la telesorveglianza totale.
E venne la stagione della polizia e del controllo.
Oggi gli squat sono stati tutti più o meno sgombrati, la Guillotine s’è dovuta trovare una casa a Nanterre, sul canal St. Martin uno spinello può valere l’arresto, ed il leitmotiv delle notti passate a fumare fuori dai locali per via della legge antifumo è: niente bicchieri fuori, niente chiacchiere ad alta voce.
Questione di buon vicinato. E di polizia.
E davvero fa impressione la quantità di guardie messe a controllo di rue e boulevard: in bici, coi pattini, con le moto e le volanti non fanno che battere in lungo e largo la capitale.
Ed il poliziotto francese, con le sue armature in kevlar, i manganelli ben esposti e gli stivaloni militari, fa ben più paura di quello italiano.
Delle morte della nuit folle se ne sono accorti diversi organizzatori ed artisti della capitale francese, che in questi giorni in un appello che sottoporranno alle autorità municipali, parlano di «Paris, ville mortuaire», «ville soumise».
Mi pare però che l’Ancient Regime ritorni un po’ dappertutto in Francia, se appena un mese fa, a Metz – dove c’era la Notte bianca – mi sono imbattuto in uno squadrone di CRS (letteralmente Compagnie Repubblicane di Sicurezza) che in abiti paramilitari picchiavano un gruppetto di diciottenni, rei soltanto di esibire una sbronza rumorosa nella ricca e calma provincia del nord.
Spero solo che tutto questo non valga come consolazione a Roma, che rispetto a quel lontano 2006 è certo meno plumbea di Parigi ma sempre sonnacchiosa, immobile, statica.