Snobismi e anniversari
Un po’ snob il New York Times ironizza sul fenomeno degli anniversari di morte, nella civiltà del rimbalzo mediatico celebrati quasi quotidianamente, per ricordare i miti della storia e del costume antichi e presenti, in una sorta di testardo attaccamento al passato.
Il commento esce in corrispondenza di un anniversario particolare, quello di Ernesto “Che” Guevara, che sembra sia stato dimenticato da tutte le sinistre della nostra parte di Mondo. Nessuna celebrazione nostrana: solo il riflesso televisivo delle manifestazioni organizzate un po’ in tutta l’America Latina.
A leggere le agenzie stampa del 9 ottobre, per i 42 anni della tragica morte dell’ultimo rivoluzionario della storia, si sarebbero scomodati soltanto il regime castrista, Evo Morales e pochi altri. Morales, e con lui il Sud America, hanno dunque ostinatamente ricordato la forza della rivoluzione, incarnata nel Che “irraggiungibile nella sua lotta, impeccabile, invincibile, nei suoi ideali.”
Che Guevara è del resto uno strano eroe, forse più comprensibile al nostro occidente negli anni ’70, che oggi.
Eroe “mediatico” per vocazione, il Che condensa molti dei paradossi della globalizzazione.
Se non altro per questioni meramente cronologiche (e vedremo che non è solo così), perché la sua rivoluzione perpetua finisce proprio quando i sogni dell’Europa e degli Stati Uniti si riempivano di una nuova primavera politica ed appunto, mediatica. Nel ’68 sta l’origine della nuova civiltà edonistica e pubblicitaria, l’atto di fondazione della civiltà contemporanea. Nel ’68 sta la rivoluzione applicata all’occidente. La televisione. Ed infine, il liberismo positivo, il progressismo.
La grande normalizzazione
L’incorruttibilità degli ideali che si fa eterna nella morte precoce. Eccola la salma di Che, divenuta presto il Cristo di Vallegrande, immolata alla giustizia ed all’uguaglianza dei popoli, adorata come la reliquia d’un santo. Santo rischioso per tutti i regimi del mondo, e nella contingenza per quello Boliviano, che quindi lo nasconde in una fossa comune e ne cela le spoglie. Troppo roventi per il mondo.
Ed ecco il Che, in questa neonata civiltà della diretta televisiva, rimbalzare di fotogramma in fotogramma, di maglietta in maglietta, eroe mediatico e fotografico, icona fortunata di una generazione che s’è poi affaccendata in altre più gravi omologazioni e che l’ha lasciato nei poster dei figli, consumando l’ultimo estremo peccato, l’idolatria.
Il marketing quotidiano delle icone del Ernesto Guevara è l’ennesima riprova dell’integrazione igienica di tutte le idee, nel grande calderone che chiamiamo mercato libero e comune.
Svuotare l’oggetto del contenuto e farne una splendida forma non è infatti il fine del design?
Che Guevara, svuotato come una zucchina, riempito della carne succulente della rivolta temporanea e normalizzata. La facile rivolta.
Depurare questa immagine nera e rossa di tutto il sangue toccato.
Depurare il guerrigliero della sua essenza etimologica: privarlo della guerra.
Qualche giorno fa, in ambiente, per così dire, di “sinistra”, si parlava del regime castrista. Al che, con grande stupore, ho udito i miei interlocutori dichiarare che Che Guevara era un uomo terribile. Dogmatico, addirittura.
E così m’è stata consigliata la lettura di un autore che in Italia ha avuto il privilegio di una sola traduzione.
Rinaldo Arenas: romanziere cubano, esule dal regime castrista dopo una lunga peripezia di carceri e fughe e tentativi di approdo ad una costa democratica. Morì nel 1990, di AIDS.
Scrisse: «La differenza fra il sistema comunista e quello capitalista, è che se ti danno un calcio in culo, sotto un sistema comunista devi applaudire, sotto il capitalismo puoi gridare; io sono venuto qui a gridare.»
Ma si sbagliava su un fatto, Arenas, e precisamente sulla questione dell’utilità del grido, che in Occidente rischia di diventare una canzone da ballare con le piume nel culo, o magari un nuovo successo discografico.
Buoni e cattivi
Così i buoni inneggiano a Che Guevara con il merchandising da bancarella. O quando sono più chic se ne vanno a comprare l’ultima tazza alla moda con l’effige del comandante nelle nuove fiammanti librerie-supermercato Feltrinelli.
Ma guai a ricordarne la forza sovversiva: quella rivoluzione spirituale richiesta al guerrigliero non è più attuabile oggi, e meno che mai nelle sinistre progressiste. Che Guevara sembra rivolgersi a loro, quando risponde: “L’unica battaglia che ho perso è stata quella che ho avuto paura di combattere.”
Che Guevara non è solo un’icona, è anche la perfetta realizzazione di questo atroce funzionamento del capitalismo. Per cui il fotogramma donato da Alberto Korda al nostro Feltrinelli diventa una delle immagini più stampate sul pianeta. Dalla rivoluzione al capitalismo, e ritorno.
Rivoluzionari, editori, guerriglieri, terroristi: quando si guarda alla storia del Che non è difficile scovare di questi collegamenti. Ed allora all’epoca dell’anti-terrorismo si reagisce con la pace perpetua, non importa se questa diventa anche pace dei sensi, “dittatura del sorriso”.
Ciò che resta del Partito Comunista Italiano legge forse in Guevara un assioma sinistro.
Hanno magari paura che il maquillage televisivo che si sono fatti in tutto questo tempo, venga smentito da un eroe tutt’altro che girotondino, votato all’azione e, perché no, ardito e sanguinario.
Vicino al “Che” «tenero» e «duro», non va infatti dimenticato quello dell’odio «come fattore di lotta; l’odio intransigente contro il nemico, che permette all’uomo di superare i suoi limiti naturali e lo trasforma in una efficace, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere. I nostri soldati devono essere così: un popolo senza odio non può distruggere un nemico brutale. Bisogna portare la guerra fin dove il nemico la porta: nelle sue case, nei suoi luoghi di divertimento. Renderla totale.»
Si capisce perché i cattivi trovino nel comandante ancora tanti spunti, perché non hanno paura di imbrattare i salotti buoni del sangue spremuto ai nemici della rivoluzione. Cattivi Chavez e Morales appunto, e qui da noi la destra extraparlamentare, la quale non lo riscopre ora, come ha detto qualcuno, ma da almeno quarant’anni ne elogia la vocazione all’azione, all’autodeterminazione, al superomismo perfetto ed implacabile di chi è disposto al sacrificio estremo per la difesa delle proprie idee.
Polemiche
Qui da noi cattivi sono soprattutto i fascisti.
Ed i fascisti del nuovo millennio, come amano definirsi loro stessi, organizzano a Casa Pound un convegno dedicato alla figura di Ernesto Guevara, in occasione ovviamente dell’anniversario della morte del rivoluzionario e per parlare dell’ennesimo libro dedicato all’argentino, ed in particolare all’assimilazione della sua figura nella destra, appunto. Si tratta de L’altro Che. Ernesto Guevara, mito e simbolo della destra militante di Mario La Ferla.
Il libro esce con Stampa Alternativa già qualche mese fa; ma all’autore la Casa Editrice nega oggi di potere andare a Casa Pound.
L’unico quotidiano italiano che continui a dichiararsi comunista, il Manifesto, con la penna di Antonio Moscato fa poi un duro a-fondo a Casa Pound ed intitola l’articolo “Giù le mani da Che Guevara”.
Moscato – grande storico di Che Guevara – inizia con l’attaccare il libro di La Ferla, definendolo un’accozzaglia di nozioni per lo più errate.
Poi i toni nel suo articolo si scaldano quando il convegno a Casa Pound viene descritto come l’ennesimo tentativo di provocazione fascista che su un “piano pseudo ideologico” tenterebbe “di occupare gli spazi dei centri sociali di sinistra, per provocarli e possibilmente ottenere un intervento repressivo contro di loro”. Assioma necessario dopo essersela presa con “tutti gli altri invitati, infami o stupidi che siano, come quel tal Raffaele Morani, ex segretario del PRC di Faenza, oggi vendoliano, che si sente talmente “eretico” da cercare il “dialogo” col peggiore dei gruppi fascisti.”
E giù poi con lo smontaggio rapido delle tesi di La Ferla.
Impasse
L’illuminante intervento di Moscato commette però un errore prospettico.
Da sinistra infatti, non bisognerebbe analizzare quanto Che Guevara sia idoneo a diventare un mito di destra, bensì in che misura il pensiero del Che non appartenga più alla fisionomia dell’attivismo italiano di sinistra.
Ma forse è un’autocritica impossibile per quegli “apostoli di turno che apprezzano il martirio” e che
“lo predicano spesso per novant’anni almeno” : “Morire per delle idee” chiudeva De André-Brassens “sarà il caso di dirlo | è il loro scopo di vivere, non sanno farne a meno.”
È una critica impossibile per una sinistra che dimostrava il suo impasse ideologico già nel settembre del 2006, quando Paolo Cento e Vladimir Luxuria, forti dell’elezione in parlamento, in occasione d’una manifestazione per Renato Biagetti, leggevano una lista di proscrizione (panem! Circenses!) che includeva diverse personalità pubbliche (fra cui il giornalista e pensatore Massimo Fini) ree di « legittimare una cultura violenta e neofascista partecipando alle iniziative di spazi occupati dalla destra radicale romana. »
Di lì l’assioma: « questo assassinio a sangue freddo è comunque di stampo fascista nel senso che è frutto del clima di violenza e di aggressione al diverso, fomentato dai gruppi della destra radicale sul territorio e legittimato dalla destra istituzionale sul piano politico».
Se i fascisti dichiarati perdono la loro fisionomia di aggressori e manganellisti, allora il fascismo deve diventare un fenomeno diffuso: ogni atto di intolleranza è fascista, in modo da potere tornare sempre alla classica divisione del mondo in due, e fugare ogni dubbio sulla validità dell’essere anti- invece di “essere” e basta.
Sono passati tre anni, la neodestra romana è diventata nel frattempo un movimento nazionale, ma negli orti della sinistra si continua a coltivare la pretesa di rappresentare il giusto, di custodire i valori più alti della Repubblica, se non altro per via del fatto d’essere anti-fascisti.
Diffido per natura di chi si definisce attraverso un anti, di chi trova la propria identità nel “contrario a”. Anti, infatti, è un brutto affisso, che in sé ha una violenza pari a quella fascista, tanto disprezzata dai tutori della nostra carta nazionale. Già Mino Maccari diceva (copio da Massimo Fini): « i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti propriamente detti e gli antifascisti».
Anti-fascisti: non si potrebbe essere più vaghi nelle idee, primariamente perché il fascismo è solo difficilmente mappabile come fenomeno storico, in quanto racchiude istanze assolutamente contraddittorie; secondariamente perché anti-fascismo non precisa alcuna alternativa a ciò cui si contrappone con tanta virulenza.
E la vaghezza ideologica è pericolosa specie se associata a premesse d’aggressione.
Per cui i no-global e gli anti-imperialisti non si stupiscono che un loro ex-parlamentare se ne vada in un reality show, diffondendo quella stessa cultura dell’omologazione berlusconiana oggetto di tanto biasimo. Loro possono permettersi tutto, se non altro perché contribuire alla TV spazzatura è una grande occasione per affermare i diritti dei trans-gender anche al grande pubblico televisivo.
Lo sosteneva Luxuria in persona, presentando qualche mese fa il suo libro alla Feltrinelli di via Appia Nuova, supermercato della cultura, nato sulle ceneri di una antica libreria romana, quella sì, local ed in crisi permanente fino all’arrivo del brand comunista, che oltre all’ipod ed ai ciddì organizza anche incontri illuminanti con la crème della nuova intellighenzia italiana (e penso a Giorgio Panariello, visto scandalizzarsi pubblicamente durante la presentazione del suo libro, contro un giovane che mentre sceglieva un cd stava al telefono… non credo ci sia bisogno di ricordarselo, questo signore, col telefono alla mano e ricoperto di banconote, perché ce lo sorbiamo tutti i giorni a reti unificate nel grande mercato della pubblicità cellulare, ma questa è altra storia).
Domande
Non toccate Che Guevara!
E non è l’unico no che i neocomunisti mettono a tutela dei valori costituzionali.
Ce n’è per tutti i gusti.
Per cui Nicolai Lilin, piccolo caso editoriale di Einaudi, decide di andare a Casa Pound per la presentazione della sua “Educazione siberiana” e riceve i fischi della sinistra che lo aveva scoperto come amico di Roberto Saviano. Il giovane autore d’origine siberiana deve così difendersi con una lettera aperta.
Poi c’è il caso di Anna Paola Concia, rea anche lei di avere accettato un invito di Casa Pound per discutere di omosessualità ed intolleranza. Anche qui una lettera aperta pubblicata su “L’altro”, in cui la deputata del PD deve giustificare la sua presenza nella sede centrale di questa scomoda «destra “fascista”, “estremista”, impresentabile, non da salotto buono».
I casi di questo tipo sono innumerevoli e vorrei chiudere l’enumerazione citando ancora la defezione di Luciano Ummarino e Claudio Marotta dalla redazione, de “L’altro”. Avranno preso male il rinnovato successo mediatico di Casa Pound, che con Action, a Roma, è in diretta concorrenza immobiliare, per così dire.
E del resto, nella manifestazione per la tolleranza e contro ogni forma di discriminazione organizzata a Roma il 24 settembre scorso abbiamo visto sfilare tutti, ma proprio tutti. Tranne quelli di Casa Pound, che pure avevano chiesto di potere aderire, per sconfessare i ridicoli Svastichella romani, prodotto, loro, della sottocultura televisiva e non certo degli intelligenti seminari organizzati in via Napoleone III.
Di che ha paura l’ultratolleranza comunista, ex-fascista, girotondista, normalista, perbenista?
Forse non può accettare che l’ultimo spazio che le rimane, la tolleranza, diventi spazio condiviso anche con la destra extraparlamentare. Che in futuro non si possa rifiutare il dialogo apponendo la solita clausola del rifiuto della violenza e dell’intolleranza.
Forse ha paura che qualcuno gli ricordi che avere una colf al nero non è un atto di solidarietà né una soluzione ai problemi occupazionali del paese.
Paura di discutere, paura di specchiarsi.
Ed eccola la domanda: è più grave parlare di Che Guevara, pur da un’ottica non condivisibile, di destra, superomistica… oppure è più grave disinnescarne la carica ideologica, reificandolo, e trasformandolo in un logo di facile beva, da ingollare possibilmente con una bella sorsata di Coca Cola?
Arrocco
Non toccate Che Guevara! Non toccate la tolleranza!
Ma la cultura politica, quella, chi la fa?
Nell’omologazione dominante viene da chiedersi in quanti a sinistra abbiano compreso la sottile puntualizzazione storica di Moscato.
Già, perché è ridicolo andare a fare gli storici a casa d’altri quando non si ha la forza o la limpidezza di guardare alla storia più recente di casa propria. E vedere magari lo stato dei centri di sociali, la cultura dell’aggressione dominante in certi entourage di sinistra, l’omofobia che pure si manifesta negli ambienti della tolleranza, l’odiosa omologazione delle serate artistiche e multiculturali.
Le numerose lettere di giustificazione e scuse che si leggono in giro e che in parte abbiamo qui citato sono la prova provata di questo clima d’omologazione in cui è vietato pensarla diversamente.
Basterebbe respirare un po’ dell’aria delle serate trendy dei nuovi compagni fighetti, dei centri sociali di sinistra trasformati in sale da concerto e must della movida urbana (con tanto di bar e cocktail, a caro prezzo da discoteca), in cui la politica diventa l’ombra d’un atteggiamento alla moda, o peggio, l’acquisto obbligato del marchio alternativo di turno.
« La rivoluzione si fa per mezzo dell’uomo, ma l’uomo deve forgiare giorno per giorno il suo spirito rivoluzionario ».
La rivoluzione è dunque per Ernesto “Che” Guevara la rivoluzione dello spirito, innanzi tutto. La presa di coscienza quotidiana delle responsabilità individuali rispetto allo stato di cose che si vuol combattere.
«Assenza di ogni indulgenza per i propri errori, in cui ricercava la prima causa di ogni male» dice Moscato… ma da dietro la trincea di chi non s’accorge del proprio peccato originale.