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il sessantotto da uno che nOn c’era [IV]
inviato nella categoria the T.Blair which projects | 2 Comments »
Non ne usciamo più.
Di tutte le urgenze possibili, tutte le urgenze possibili passano per la mia posta elettronica.
E così il mio livello di consapevolezza aumenta insieme al livello di consapevolezza globale.
Aumenta il livello di consapevolezza globale assieme al calore dei server.
Uhm.
Siamo davvero consapevoli, infine?
Se ricevo la newsletter sul Tibet ogni settimana ed ogni settimana ho l’incombenza di leggerla sarà un esercizio spirituale? Oppure sarà una replica in salsa ecosensibile del mio lavoro?
Perché i nuovi schiavi spirituali sono soprattutto schiavi della routine.
Schiavi di una interfaccia o di un telecomando.
Se i sentimenti si sottopongono allo stress della tastiera e del messaggio istantaneo è meglio prendersi una pausa dai sentimenti?
…o dall’istantaneità?
Sono sbarcato al nord. E sono finito in un entourage.
E questo entourage era la libertà: un appartamento spagnolo, dove l’apertura cosmopolita era la regola.
Ed ecco che tutti questi sconosciuti mi sembravano affascinanti e padroni di un mondo che io ancora non sapevo controllare.
Giovani europei capaci di una libertà che credevo assoluta. Di una tolleranza a me ignota.
Multiracial. Multicultural.
Ma se la libertà è soddisfare dei bisogni, che tipo di libertà ci stiamo comprando quando tutti i nostri bisogni sono inventati?
E addirittura: la libertà può diventare il grimaldello per appagare i propri bisogni personali.
O semplice disinteresse per l’altro. E per il suo punto di vista. Che poi è lo stesso.
Che libertà è questa?
Avere a disposizione il proprio tempo, come prima non sarebbe potuto accadere, col lavoro in fabbrica ed il lavoro da impiegato ed il posto fisso.
Fare il ricercatore. Avere il proprio tempo.
E poi non spenderne neanche un secondo per cucinare per qualcun altro.
Mangiare fast food per avere il tempo di guardare la televisione.
Vivere… alla giornata. Ma con una rete a proteggerti in basso.
Vivere. Cacare. Vivere.
Pasolini è morto per te…
Baudelaire è morto per te…
Luigi Tenco è morto per te…
Qualche tempo fa mi trovai ad invitare un’amica a restare ad una festa.
Un buon amico comune partiva ed era l’ultima possibilità di salutarlo.
Insistetti un poco.
E poi mi fu rimproverato che non rispettavo le sue libertà.
Che ognuno è libero di fare ciò che vuole e che non avevo alcun diritto di insistere.
Un invito affettuoso che diventa una violazione della libertà.
Non solo: una questione di libertà per decidere di rimanere o meno ad un picnic.
Una questione di libertà per questo: eppure siamo disposti a vendere le nostre vite, i dati che ci riguardano, a parlare delle nostre abitudini e semmai ad influenzarle, in cambio, magari, di una ricarica da dieci euro sul cellulare.
O dell’iscrizione alla giusta causa della newsletter per il Tibet.
Ma la libertà è un fatto relativo?
Socrate suicida per noi…
Heidegger è morto per te…
Nietzsche è morto per te…
Abbiamo così inventato una libertà fachira. Una libertà che mangia se stessa, perché la sua necessità primaria è l’abolizione dell’altro.
La libertà di vedere il nuovo documentario di Moore noleggiato nuovo fiammante da blockbuster ed indignarci.
Non di noi stessi, però.
Libertà fasulla, allora, perché la più grande delle libertà è fare con l’altro.
Se non per l’altro.
Così anche chi mette in luce il meccanismo di assorbimento della protesta da parte dello status quo, come Marcuse, è fachiro a sua volta. È così, certamente.
E questi nuovi allibratori si innalzano su cosa?
Su una massa che ha tutti gli strumenti apparenti per la conoscenza, ma che non comprende che i medesimi strumenti sono qualcosa pronto ad esplodere. Così come un DISASTRO atomico.
Documentario sugli inizi dell’occupazione cinese in Tibet.
Rimango stupito di vedere un fatto comune ad ogni rivoluzione in ogni parte della terra: si bruciano i libri.
È preistoria rispetto a quanto è possibile oggi fare con una sequenza numerica.
Possiamo perdere la memoria.
Perderemo la memoria.
E quel che è peggio è che in pochi (nessuno?) se ne renderanno conto.
Questi cosmopoliti.
Questi residenti all’estero passano così le loro giornate.
Ad ogni discussione si apre l’i-mac. Si connette la wireless. Si apre wikipedia.
E tam.
La soluzione.
La soluzione dunque non è più nei nostri cervelli?
E la rivoluzione? Dov’è la rivoluzione?
Epoca della DELOCALIZZAZIONE TOTALE la nostra era sta delocalizzando le conoscenze.
Significa che le nostre conoscenze, i nostri appunti, i nostri ricordi, le nostre sapienze più intime non albergano più nelle nostre tasche.
La civiltà latina aveva fatto della delocalizzazione il proprio punto di forza.
Delocalizzazione della cittadinanza romana, che non dipendeva più dalla nascita in Roma.
Delocalizzazione della formazione, con la crescita intellettuale del patriziato romano in Grecia.
Delocalizzazione della guerra, con l’allontanamento delle frontiere, e quindi degli scontri, dal centro nevralgico dell’impero.
Delocalizzazione: immaginate un condottiero come Pompeo quanti anni passò lontano da casa.
E quanti anni per Cesare?
Le culture nomadi dei nuovi continenti vivano anche esse nella delocalizzazione.
La differenza è che in tutte queste civiltà esisteva un bagaglio al seguito.
Un bagaglio chiamato cultura, per cui l’uomo ne era il legittimo proprietario anche ALTROVE, in quanto faceva parte integralmente di se stesso.
Con questo bagaglio l’uomo era pieno anche se nudo.
La nostra civiltà dell’altrove ha favorito lo sviluppo della mobilita INDIVIDUALE arrestando però il movimento della cultura, concentrata sempre di più in basi dati e centri di elaborazione di calcolo.
Tutte le verità che ho l’impressione di portare nelle mie tasche con qualsivoglia strumento di registrazione tecnica albergano sempre di più in un solo punto cartesiano.
Sono libero, insomma, di consultare una sola fonte.
Così lontana così incredibilmente vicina.
Società della DELOCALIZZAZIONE TOTALE le nostre società hanno creato solo un’apparenza di movimento. Perché la VELOCITA’ non va confusa col MOVIMENTO.
Perché virtualizzando le conoscenze ed i saperi abbiamo l’impressione che essi si muovano con noi, quando invece restano fermi.
Fin quando non potranno più seguirci neanche nei sogni, come forse già accade.
Fra i membri della nuova barbarie cosmopolita (che non corrisponde al cosmopolitismo) va molto di moda lo Tziget festival, manifestazione rock che ha luogo ogni estate a Budapest.
Andai a Budapest nel lontano 1999.
Ricordo una città di incroci, priva di piazze dove incontrarsi.
Ricordo un abisso inospitale per un figlio del G8.
Un abisso che ci costrinse a qualche maltrattamento poliziesco. All’inefficienza dello stato postcomunista che non sapeva ancora cosa farsene del turismo globale (che in pochi anni diventerà SESSUALE).
Fummo costretti a dividerci a causa d’un furto.
E restammo in una caserma e poi sotto la pioggia in attesa che un interprete ubriaco di vodka ci dicesse che era colpa nostra non si capiva bene di che.
E restammo a guardare il ladro che aveva distrutto il nostro vizio del viaggio uscire tranquillo.
Ricordo anche che nella povertà ancora incredibile di un paese che aveva i palazzi reali del centro pieni di senzatetto, cominciavano a spuntare i primi templi del consumismo.
McDonald’s e KFC. (Io vedevo per la prima volta un KFC, lì, in mezzo ai detriti del muro, ce n’erano già a centinaia).
A Gyor restammo un pomeriggio a spiare quelli del posto che avevano la nostra stessa età fare la coda per entrare al McDonald’s mentre nelle taverne c’eravamo solo noi.
Il nuovo avanzava.
Oggi una specie di rito collettivo di espiazione delle differenze con l’occidente si tiene ogni anno a Budapest. È un festival rock.
Dovrebbe ricordare Woodstock.
Ed i giovani europei no-global ci si sentono a proprio agio anche a causa i quei primi fastfood.
Prendo questa citazione dalle memorie di Giuseppe Spezzaferro sul Sessantotto:
«E’ corretto dire che il delta odierno è stato creato dal fiume sgorgato nel Sessantotto, perché ad egemonizzare la cultura di quegli anni è stata la parte legata a schematismi ottocenteschi costruiti sulla malvagità del capitalismo, sull’autoritarismo liberticida, sul paternalismo ipocrita e sulla borghesia rapinatrice (oltre che sulla religione oppio dei popoli e sulla dittatura del proletariato).»
E rispondo che il fenomeno trae origini più profonde nel materialismo illuminista.
Che ha inventato il diritto alla felicità, pensando allo stesso tempo che lo spirito fosse vapore balsamico.