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il sessantotto da uno che nOn c’era [IV]

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hitlerMASK - photorights artMobbing @ rk22.com
Non ne usciamo più.
Di tutte le urgenze possibili, tutte le urgenze possibili passano per la mia posta elettronica.
E così il mio livello di consapevolezza aumenta insieme al livello di consapevolezza globale.
Aumenta il livello di consapevolezza globale assieme al calore dei server.

Uhm.
Siamo davvero consapevoli, infine?
Se ricevo la newsletter sul Tibet ogni settimana ed ogni settimana ho l’incombenza di leggerla sarà un esercizio spirituale? Oppure sarà una replica in salsa ecosensibile del mio lavoro?
Perché i nuovi schiavi spirituali sono soprattutto schiavi della routine.
Schiavi di una interfaccia o di un telecomando.
Se i sentimenti si sottopongono allo stress della tastiera e del messaggio istantaneo è meglio prendersi una pausa dai sentimenti?
…o dall’istantaneità?

Sono sbarcato al nord. E sono finito in un entourage.
E questo entourage era la libertà: un appartamento spagnolo, dove l’apertura cosmopolita era la regola.
Ed ecco che tutti questi sconosciuti mi sembravano affascinanti e padroni di un mondo che io ancora non sapevo controllare.
Giovani europei capaci di una libertà che credevo assoluta. Di una tolleranza a me ignota.

Multiracial. Multicultural.

Ma se la libertà è soddisfare dei bisogni, che tipo di libertà ci stiamo comprando quando tutti i nostri bisogni sono inventati?
E addirittura: la libertà può diventare il grimaldello per appagare i propri bisogni personali.
O semplice disinteresse per l’altro. E per il suo punto di vista. Che poi è lo stesso.
Che libertà è questa?
Avere a disposizione il proprio tempo, come prima non sarebbe potuto accadere, col lavoro in fabbrica ed il lavoro da impiegato ed il posto fisso.
Fare il ricercatore. Avere il proprio tempo.
E poi non spenderne neanche un secondo per cucinare per qualcun altro.
Mangiare fast food per avere il tempo di guardare la televisione.
Vivere… alla giornata. Ma con una rete a proteggerti in basso.
Vivere. Cacare. Vivere.

Pasolini è morto per te…
Baudelaire è morto per te…
Luigi Tenco è morto per te…

Qualche tempo fa mi trovai ad invitare un’amica a restare ad una festa.
Un buon amico comune partiva ed era l’ultima possibilità di salutarlo.
Insistetti un poco.
E poi mi fu rimproverato che non rispettavo le sue libertà.
Che ognuno è libero di fare ciò che vuole e che non avevo alcun diritto di insistere.
Un invito affettuoso che diventa una violazione della libertà.
Non solo: una questione di libertà per decidere di rimanere o meno ad un picnic.
Una questione di libertà per questo: eppure siamo disposti a vendere le nostre vite, i dati che ci riguardano, a parlare delle nostre abitudini e semmai ad influenzarle, in cambio, magari, di una ricarica da dieci euro sul cellulare.
O dell’iscrizione alla giusta causa della newsletter per il Tibet.
Ma la libertà è un fatto relativo?

Socrate suicida per noi…
Heidegger è morto per te…
Nietzsche è morto per te…

teleObSSession - photoRights artMobbing @rk22.com

Abbiamo così inventato una libertà fachira. Una libertà che mangia se stessa, perché la sua necessità primaria è l’abolizione dell’altro.
La libertà di vedere il nuovo documentario di Moore noleggiato nuovo fiammante da blockbuster ed indignarci.
Non di noi stessi, però.
Libertà fasulla, allora, perché la più grande delle libertà è fare con l’altro.
Se non per l’altro.

Così anche chi mette in luce il meccanismo di assorbimento della protesta da parte dello status quo, come Marcuse, è fachiro a sua volta. È così, certamente.
E questi nuovi allibratori si innalzano su cosa?
Su una massa che ha tutti gli strumenti apparenti per la conoscenza, ma che non comprende che i medesimi strumenti sono qualcosa pronto ad esplodere. Così come un DISASTRO atomico.

Documentario sugli inizi dell’occupazione cinese in Tibet.
Rimango stupito di vedere un fatto comune ad ogni rivoluzione in ogni parte della terra: si bruciano i libri.
È preistoria rispetto a quanto è possibile oggi fare con una sequenza numerica.
Possiamo perdere la memoria.
Perderemo la memoria.
E quel che è peggio è che in pochi (nessuno?) se ne renderanno conto.

Questi cosmopoliti.
Questi residenti all’estero passano così le loro giornate.
Ad ogni discussione si apre l’i-mac. Si connette la wireless. Si apre wikipedia.
E tam.
La soluzione.
La soluzione dunque non è più nei nostri cervelli?
E la rivoluzione? Dov’è la rivoluzione?

Epoca della DELOCALIZZAZIONE TOTALE la nostra era sta delocalizzando le conoscenze.
Significa che le nostre conoscenze, i nostri appunti, i nostri ricordi, le nostre sapienze più intime non albergano più nelle nostre tasche.
La civiltà latina aveva fatto della delocalizzazione il proprio punto di forza.
Delocalizzazione della cittadinanza romana, che non dipendeva più dalla nascita in Roma.
Delocalizzazione della formazione, con la crescita intellettuale del patriziato romano in Grecia.
Delocalizzazione della guerra, con l’allontanamento delle frontiere, e quindi degli scontri, dal centro nevralgico dell’impero.
Delocalizzazione: immaginate un condottiero come Pompeo quanti anni passò lontano da casa.
E quanti anni per Cesare?
Le culture nomadi dei nuovi continenti vivano anche esse nella delocalizzazione.
La differenza è che in tutte queste civiltà esisteva un bagaglio al seguito.
Un bagaglio chiamato cultura, per cui l’uomo ne era il legittimo proprietario anche ALTROVE, in quanto faceva parte integralmente di se stesso.
Con questo bagaglio l’uomo era pieno anche se nudo.
La nostra civiltà dell’altrove ha favorito lo sviluppo della mobilita INDIVIDUALE arrestando però il movimento della cultura, concentrata sempre di più in basi dati e centri di elaborazione di calcolo.

Tutte le verità che ho l’impressione di portare nelle mie tasche con qualsivoglia strumento di registrazione tecnica albergano sempre di più in un solo punto cartesiano.
Sono libero, insomma, di consultare una sola fonte.
Così lontana così incredibilmente vicina.

Società della DELOCALIZZAZIONE TOTALE le nostre società hanno creato solo un’apparenza di movimento. Perché la VELOCITA’ non va confusa col MOVIMENTO.
Perché virtualizzando le conoscenze ed i saperi abbiamo l’impressione che essi si muovano con noi, quando invece restano fermi.
Fin quando non potranno più seguirci neanche nei sogni, come forse già accade.

only Puppets - photorights artMobbing @ rk22.com

Fra i membri della nuova barbarie cosmopolita (che non corrisponde al cosmopolitismo) va molto di moda lo Tziget festival, manifestazione rock che ha luogo ogni estate a Budapest.
Andai a Budapest nel lontano 1999.
Ricordo una città di incroci, priva di piazze dove incontrarsi.
Ricordo un abisso inospitale per un figlio del G8.
Un abisso che ci costrinse a qualche maltrattamento poliziesco. All’inefficienza dello stato postcomunista che non sapeva ancora cosa farsene del turismo globale (che in pochi anni diventerà SESSUALE).
Fummo costretti a dividerci a causa d’un furto.
E restammo in una caserma e poi sotto la pioggia in attesa che un interprete ubriaco di vodka ci dicesse che era colpa nostra non si capiva bene di che.
E restammo a guardare il ladro che aveva distrutto il nostro vizio del viaggio uscire tranquillo.
Ricordo anche che nella povertà ancora incredibile di un paese che aveva i palazzi reali del centro pieni di senzatetto, cominciavano a spuntare i primi templi del consumismo.
McDonald’s e KFC. (Io vedevo per la prima volta un KFC, lì, in mezzo ai detriti del muro, ce n’erano già a centinaia).
A Gyor restammo un pomeriggio a spiare quelli del posto che avevano la nostra stessa età fare la coda per entrare al McDonald’s mentre nelle taverne c’eravamo solo noi.
Il nuovo avanzava.
Oggi una specie di rito collettivo di espiazione delle differenze con l’occidente si tiene ogni anno a Budapest. È un festival rock.
Dovrebbe ricordare Woodstock.
Ed i giovani europei no-global ci si sentono a proprio agio anche a causa i quei primi fastfood.

Prendo questa citazione dalle memorie di Giuseppe Spezzaferro sul Sessantotto:
«E’ corretto dire che il delta odierno è stato creato dal fiume sgorgato nel Sessantotto, perché ad egemonizzare la cultura di quegli anni è stata la parte legata a schematismi ottocenteschi costruiti sulla malvagità del capitalismo, sull’autoritarismo liberticida, sul paternalismo ipocrita e sulla borghesia rapinatrice (oltre che sulla religione oppio dei popoli e sulla dittatura del proletariato).»
E rispondo che il fenomeno trae origini più profonde nel materialismo illuminista.
Che ha inventato il diritto alla felicità, pensando allo stesso tempo che lo spirito fosse vapore balsamico.

Leggi le memorie sul Sessantotto di Giuseppe Spezzaferro che ispirano la serie “il sessantotto da uno che nOn c’era”

Allah, Google, i pescivendoli [III]

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moskeeeeeeeeeee - copyright artMobbing @ rk22.com -
Avresti sbarrato gli occhi, per dio.
Anzi, avresti fatto tremare tutto il tuo silicio nonspirituale.
Avresti visto schiene.
Centinaia, migliaia, di schiene.
Poissonniers, poilonceau, richehomme, myrha.
Tutte occupate.
Quelle che montano, come richehomme, sono impercorribili.
La carreggiata è una distesa in preghiera. Non c’è verso di passare.
Poissonniers rimane ribera, è vero, ma bisogna camminare sulla carreggiata.
Scarpe dappertutto.
Teppeti ovunque.
Per farli pregare al coperto ci vorrebbe più di una moschea.

Cammino su un tappeto di devozione.
VOLO.
E sento le preghiere del minareto solo da lontano.
E rabbrividisco.
Chi passa, come me, è silenzioso.
Forse si pone il problema di Dio.
Silenzio!
Si prega per le strade.
L’alzarsi e l’abbassarsi muto delle teste fa rumore.
Come un fruscio generalizzato.
Fruscio in decibel.
Forse è il fruscio di Dio.
Ed il fruscio di Dio si declina in decibel.
Rumore silenzioso.

Mi sembra tutto poco lucido.
Alla fine dei poissonniers ci siamo. Il boulevard.
La strada lo incrocia a 30°, di taglio.
Un marciapiede accompagna l’intersezione, arrotondato, verso Barbes.
E’ l’ultima penisola di corpi nel traffico.
I pedoni, ordinati, aggirano, passando sull’afalto della pista ciclabile.
Più avanti una serie di mendicanti e di storpi hanno smesso di allungare le mani alla folla.
Pregano pure loro, prostrandosi ad Allah come possono.
Come Allah permette loro.
Come Allah ha deciso per loro.
Più avanti ancora il solito traffico di marlboro, proprio al riparo, sotto i pali della station aérienne.
E potrei parlarvi di che novità tecnologica rappresentava questa stazione.
Sogno tecnologico o riparo per gli spacciatori di Marlboro?
Il tempo ha deciso per la seconda opzione.

Allah, Google, i pescivendoli [II]

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google o allah?
Alle 13.30 però Parigi me la dimentico per davvero.
Dimentico tutto, anzi.
E mi pare di affondare in un sogno magnetico.
Vedo tutto dietro una lente di plastica. La luce parassita entra in un istante e solca lo sguardo di taglio.
Lunghe righe convesse tracciano la superficie umida delle mie iridi.
Bagliori.
Mi sembra tutto fotografato da una Holga.
Mi sembra tutto troppo strano.
Sarà che ho la maglietta intrisa della sera prima.
Sarà che ho il maglione intriso della birra della sera prima.
Sarà che ho dormito poco.
Sarà che le viscere mi si rivoltano in uno spasmo e che le sento incollate dal resto della schiuma.

Non basta neanche il croque che mangio, disgustato.

Sarà il fumo blu?

O forse è reale.
Bisognerebbe controllare su google map se il giorno in cui il punto geometrico spaziale, il satellite, è passato sulla precisa vericale dei poissonniers, bisognerebbe domandarsi se questo punto inesistente, se queste ascisse ed ordinate senza volume alcuno, non siano esse per caso passate di qua, sulla verticale dei poissonniers proprio di venerdì.
Magari un venerdì alle 13.30.
Magari anche lui, stanco, ubriaco.
Reduce da una nottata in cui il sole ha lambito di sbieco soltanto i suoi pannelli fotosensibili e pertanto stanco.
Satellite stanco ed ubriaco.
Stellite dopo la festa: guarda qui, satellite.
Guarda sulla verticale della rue poissonniers alla una e trenta minuti del pomeriggio.
Di venerdì.

il sessantotto da uno che nOn c’era [III]

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vagabondo del dharma - photoright artmobbing
E c’è anche il mito della strada, nel racconto appassionato di Giuseppe Spezzaferro sul Sessantotto.
Un mito che tocca le corde profonde delle ambiguità che si celano dietro alla stagione della fantasia al potere.
Sulla strada: il sacco a pelo e la motocicletta verso il tramonto, a seguire la nuova conquista del WEST. Vagabondi del Dharma o Easy Riders. La nuova generazione della protesta viene uccisa dall’america bigotta nella fine memorabile del manifesto cinematografico della Beat Generation. Ma inconsapevolmente quella generazione ripeteva il rito dei padri, il rito della conquista (stavolta culturale) dell’altra costa. Il rito della CONQUISTA di tutto ciò che apparteneva a quelle terre.
Se gli indiani erano stati sterminati a colpi di epidemie ed alcoolismo ora il giovane americano emulava il misticismo e la spiritualità di quei popoli, trasformandoli nei giocattoli colorati delle allucinazioni lisergiche e della creatività “sotto effetto”.
Il viaggio spirituale e mentale, il viaggio fisico. Eccoli lì, come possibilità imprevista e del tutto nuova.
Ecco la scoperta dell’India e dei nuovi esotismi.
Un rito di espiazione collettiva in cui il mondo della tecnica e del fucile, l’Occidente, simulava la sua apertura, inglobando e commercializzando nell’etnica antropologica il senso profondo di quelle spiritualità “altre”.
Con questo non si vuole sostenere che la CORSA all’ovest (che in Europa si tradusse con la corsa ad oriente) non fu un risveglio, ma che solo i segni epidermici di quelle culture che si scoprivano allora potevano essere assimilati da un sistema che gli era e gli rimane opposto per interessi e stili di vita.
Uno degli atteggiamenti più paradossali della società dell’informazione veniva allora a galla, e prendiamo in prestito le parole da Marcuse per capire di cosa si tratta:
«Il mutamento di ampia portata in tutti i nostri abiti di pensiero» è più serio. Esso serve a coordinare idee e scopi con quelli che il sistema dominante esige, a inserirli nel sistema, e a respingere quelli che sono irreconciliabili con esso. L’avvento di tale realtà a una sola dimensione non significa peraltro che il materialismo regni, e che le attività spirituali, metafisiche e bohémiennes stiano svanendo. Al contrario, v’è una profusione di «preghiamo insieme questa settimana», «Perché non provare Dio», di Zen, di esistenzialismo, di Giovani arrabbiati, ecc. Ma tali forme di protesta e di trascendenza non […] hanno più carattere negativo. Esse sono piuttosto la parte cerimoniale del comportamentismo pratico, la sua negazione innocua, e sono prontamente assimilate dallo status quo come parte della sua dieta igienica.
Su questi valori culturali la visione del gruppo del Teatro sembra che non fosse differente dalle altre, se non nelle soluzioni: il popolo indiano (mitizzato forse in virtù del medesimo principio di assimilazione ideologica, per cui il più importante dei miti bohémien degli stati uniti, la beat generation, cannibalizzò le culture indigene del peyotl e della mescalina) si disgregò per la mancanza di un principio unificatore. Per la mancanza cioè di un capo militare e spirituale.
Il primato (culturale e cronologico) della Chiesa di Roma ed il primato (contingente e politico) degli Stati Uniti si spiegherebbero proprio col fatto che sono le uniche potenze in ad avere trovato una via attuale al fuhrerprinzip.
Ma se da una parte il sistema del principe-capo negli stati Uniti non ha nulla a che vedere con la spiritualità, dall’altra parte la Chiesa non potrebbe, oggi, per la sua natura dottrinale, consentire un adeguato e coerente sviluppo scientifico e tecnologico.
Poniamoci una domanda: come è possibile pensare ad una compatibilità fra democrazie dirette e principio di sovranità assoluta nel contesto della civiltà dell’informazione?
Purtroppo tale combinazione non evoca in noi che panorami di memoria orweliana.
La Chiesa Apostolica Romana detiene il primato dell’organizzazione. Mentre invece ogni moschea è un Islam: ma il primato della mezza luna resta sempre la coesione intorno al più spirituale dei capi, benché morto: Maometto.
La discendenza dal profeta è un galvanizzante fondamentale che fa accettare al credente il sacrificio totale della propria persona per una dimensione più alta di quella terrena.
Tale coesione è sconosciuta all’Occidente, che la ha sostituita con la tecnica.
Un sistema di sviluppo Occidentale è dunque impossibile senza la tecnica.
Ma, visto che la via al misticismo e quella alla tecnica sono incompatibili, dobbiamo forse rinunciare ad un Occidente spirituale?

il sessantotto da uno che nOn c’era [II]

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antigaz - artmobbing @rk22.com
È davvero un progetto ambizioso, quello di Giuseppe Spezzaferro, scrivere una storia del Sessantotto dalla parte di chi c’era davvero per “farci entrare dentro chi non c’era”: segno di una urgenza, che sottolinea quanto sia importante oggi una riflessione sul movimento studentesco lontana dalla retorica telegiornalistica e giovanilistica.
Non solo. L’obiettivo di internettuale è di fornire una testimonianza dalla parte di chi ha vissuto un senso di appartenenza e di chi questo senso di appartenenza se lo è portato dentro, applicandolo integralmente alla vita, senza compromessi.
Senza passaggio alla politica.
Del resto sembra proprio questo il male del Sessantotto, il passaggio alla politica, che corrompe necessariamente l’ideale negando la possibilità “semantica” della rivoluzione.
Ecco la crudeltà del Sessantotto: scoperta dell’informazione mediatica, espansione istantanea delle conoscenze.
Si corre verso lo spazio: cosa è la corsa allo spazio se non una visione radicalmente diversa, globale, dell’umanità? Inizia, nel Sessantotto, l’idea che il mondo sia una pallina da guardare da fuori.
La fotografia ed il filmato: le tecnologie dell’immagine entrano prepotentemente nella vita di tutti i giorni.
Il mondo come scenario da registrare.
Si inaugura la dimensione panoptica del contemporaneo.
Ciò che stupisce è l’apporto originale del “gruppo del Teatro”: un apporto singolare che spinge Giuseppe Spezzaferro a parlare di un Sessantotto come storia di uomini e di idee, avventura di gruppi ben distinti, più che movimento globale.
Ed è questo un approccio ermeneutico in perfetta concordanza con l’altermondialismo del gruppo del teatro: un altermondialismo che non si basava sulla scelta di altri mercati (e quindi di una etichetta biologica in luogo di quella tradizionale) ma sulla contestazione radicale di una barbarie etica. Quella americana.
Percorrendo la storia ideologica del movimento del gruppo del Teatro ci troviamo allora di fronte a posizioni paradossali, almeno da un punto di vista contemporaneo.
Da un lato l’autodeterminazione dei popoli, assunta come principio fondamentale a regolazione della politica internazionale; dall’altro una identità europea forte: un passaggio che il tempo sembra avere contraddetto, se pensiamo come il principio di autodeterminazione sia stato usato, ieri ed oggi, per l’affermazione delle ragioni dei più forti.
Pensiamo a livello locale agli indipendentismi della ricchezza: il nord-est italiano, i Paesi Baschi e la Catalogna in Spagna. O livello internazionale al recente esempio del Kosovo, anche se il Medio Oriente sarebbe a sua volta ricchissimo di esempi di autodeterminazione per così dire “eterodotta”, che del resto, l’Italia ha vissuto nel suo passato napoleonico.
Quale Europa? Qui la posizione di un capitalismo umano è modernissima, così come è moderna l’idea che una Europa delle banche potesse essere un terreno di confronto già in qualche modo politico.
Ma stupisce che queste posizioni venissero proprio da lì. Proprio da quell’estremismo giovanile da cani sciolti, quando oggi ogni radicale si caratterizza da idee del tutto opposte.
Cosa ne ricaviamo? Innanzi tutto che l’idea della contestazione radicale, nuda e cruda, o di una sinistra oltranzista e senza compromessi, è uno strumento del sistema dominante, affermatosi appunto definitivamente con il Sessantotto. Se ammettiamo questo, e cioè che la rivoluzione sia divenuta uno degli strumenti più potenti di merchandising (soprattutto non solo politico), allora possiamo capire da quale Sessantotto il terrorismo provenga.
Ed è quello il Sessantotto che ha vinto.

Leggi su internettuale.net:
Il sessantotto da uno che c’era (parte I)
Il sessantotto da uno che c’era (parte II)

il sessantotto da uno che nOn c’era [I]

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antigas copyright ARTMOBBING.eu
Rispondiamo a internettuale.
Con il ‘68 il processo di omologazione ha avuto una accelerazione esponenziale.
Il ‘68 ha abituato tutti alla moda. Tutti al consumo.
Il ‘68 ha reso più digeribile la disgregazione dell’unità fondamentale delle nostre società, la famiglia; ed ha affermato con maggiore vigore la corrispondenza diretta fra scienza e pragmatismo.
Nuovo Illuminismo?
Il ‘68 ha trasformato i vecchi bisogni in necessità e ne ha creati di nuovi.
Edonismo fa rima con ‘68.
Il punto però è che proprio l’incoscienza che qui si evoca con tanta forza donava a questo edonismo delle insolite qualità.
Il ‘68 ha esplorato un terreno per certi versi vergine e questa virginalità – la scoperta di nuove, inattese possibilità – lo rende una specie di peccato originale del nostro tempo. Ed il peccato originale (in barba ad ogni teologo) è meno grave, perché è primigenio, non conosce la detestabilità della perseveranza.
Primi in tutto i sessantottini.
E questo primato ci suggerisce prospettive virginali, innocenti.
La società era un foglio bianco, bastava impugnare la penna e disegnare.
Il ‘68 è stato muovere i primi passi nel candore della neve appena caduta.
Le orge di woodstock appaiono un esempio puro d’amor libero.
Le droghe chiavi per aprire nuove porte.
Twiggy un essere etereo, mediante una magrezza inedita il corpo diventava trasparente.
L’autostrada l’arteria dentro cui pompare un nuovo modello di sviluppo e comunicazione una nuova forma mentis: la velocità.
Le immagini dei beatles che rimbalzavano da un capo all’altro del mondo creavano una nuova, rassicurante, “prospettiva domestica globale”: si scopriva che ci si poteva sentire a casa anche in Giappone.
Oggi, nell’ordine: perversioni sessuali, tossicodipendenze, anoressia, atteggiamenti compulsivi, manipolazione delle masse.
E proprio sulla onnipresenza dei beatles nei media vale la pena soffermarsi: è da lì che inizia la società contemporanea dello spettacolo (il tanto criticato showbitz). Dovremmo puntare il dito contro questo inizio, analizzarlo criticamente, ma non possiamo non sorridere dell’innocenza dei fab four, del loro sguardo a quel mondo che proprio allora cominciava a diventare piccolo come un mandarno.
La società odierna è frutto del ‘68, è vero.
E l’immagine positiva con cui ricordiamo il ‘68 ha contribuito a renderlo integrale.
Oggi, per paradosso, siamo integralisti di quella contestazione e di quella libertà, tanto che ne siamo diventati schiavi.
Tanto che non comprendiamo più bene cosa fare di questa libertà.
La degenerazione sta forse nell’assenza di questo romanticismo da “prima volta”, nella trasformazione delle menti fin nelle profondità neurali di un linguaggio che ha voluto prendere i segni esteriori di quella rivoluzione senza riuscire a costruire una “ermeneutica della libertà” (o ermeneuitica della rivoluzione?).
Ed è così che quella distesa di neve bianca, calpestata e ricalpestata dopo il primo, mistico, attraversamento è oggi fango e poltiglia.

l’università senza spirito

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l’università senza spirito
Se l’università dimentica filosofia e teologia vuol dire che siamo davvero arrivati ad un punto di non ritorno.

Le cronache italiche si riempiono oggi del cosiddetto dibattito culturale, ove la laicità dello stato sarebbe la ragione che induce 67 professori dell’università “La sapienza” a protestare per la partecipazione di Benedetto XVI all’apertura dell’anno accademico.
L’università più popolosa d’Europa, rifiuta, insomma, in nome dello stato laico, di accogliere il Papa.
Non importa che la cappella de “La Sapienza” sia stata appena riaperta.
Non importa che nelle scuole superiori del nordest il crocifisso sia sulla testa di cristiani ed arabi (cui si vorrebbe però proibire di portare il velo), non importa insomma che in ben altri e più decisivi settori, questa laicità – tanto cara, ad esempio, ai nostri cugini d’oltralpe – venga calpestata e messa in dubbio.
E neanche importa che il problema della laicità dello stato NON emerga quando invece si tratta di affrontare riforme che il sistema sociale richiede con urgenza ad una classe politica che invece si dimostra sempre più riluttante quando si tratta di toccare privilegi, caste, clientelismi, clericalismi. I partiti della sinistra radicale continuano a dare appoggio ad un governo che rifiuta di entrare nel merito dei pacs. E la “cosa rossa” in nome di un improbabile antiberlusconismo, già profila un’alleanza con il neo-vetero Partito Democratico, il quale non cela simpatie clericali e mette all’ordine del giorno un dibattito su quella che nel resto d’Europa è già norma: il riconoscimento delle coppie di fatto.

Ma di cosa si parla in Italia?

Nessun accenno alla laicità dello stato quando si tratta di sperimentazione sulle cellule staminali, nodo cruciale della scienza a venire ed importante settore di sviluppo di un paese che ambirebbe a restare (ma mi viene di dire “tornare”) fra le potenze del beneamato Occidente.
E così noi Italiani, popolo di santi, navigatori e transessuali rimaniamo al medioevo della ricerca, non risolviamo il problema dell’integrazione religiosa, lasciamo che il papa intervenga nelle materie più disparate e poi ci indigniamo se quest’ultimo viene invitato a parlare in una università.
Il rifiuto di Benedetto da parte dell’università di Roma, quello si, è una battaglia da condurre fino in fondo in nome della laicità.

Del resto a queste battaglie individui dello spessore di Vladimiro ci hanno abituato fin dal dopoelezioni, quando in uno stato democratico osarono leggere pubblicamente le loro liste di proscrizione.
E viene da chiedersi come si possa promuovere il bavaglio a chicchessia ed allo stesso tempo sostenere di battersi per la libertà (pure quella antiberlusconiana?) di espressione e la convivenza fra le religioni.

L’università decide di non parlare al Cristianesimo, e cioè a chi – unico dopo l’impero romano – è stato il collante culturale europeo e l’elemento stesso di formazione dell’Europa. Non parlare a chi ha contribuito a tramandare la tradizione dei classici ed a costituire la nostra identità continentale.
La scienza mostra oggi d’esser peggio che ai tempi di Voltaire, quando forse “cieli stellati” sulla testa del fisico e dell’astronomo e del biologo ancora c’erano: la stessa scienza voltairiana ed enciclopedica (fondamento della follia dei moderni) non aveva cotanta faccia tosta. E’ Giorgio Israel a ricordarci dalle pagine dell’Osservatore Romano che quanti hanno scelto come motto la celebre frase attribuita a Voltaire – “Mi batterò fino alla morte perché tu possa dire il contrario di quel che penso” – non possono opporsi a che il Papa tenga un discorso all’università.
E tanto per chiosare sulle origini cristiane dell’Europa anche lo sviluppo del sapere universitario deve molto, quasi tutto, alla storia della Chiesa di Roma.

Bisognerà pure riconoscere che in qualità di teologo (se non vogliamo dire filosofo) e professore a Tubinga Benedetto XVI ha tutto il diritto di parlare all’università.
Per giunta, nel solito ed inutile chiacchiericcio mediatico si apprende anche che la proposta iniziale di tenere una lectio magistralis (funzione assai più adatta al papa teologo) alle prime pressioni dei professori laici è stata trasformata in “semplice” invito all’inaugurazione dell’anno accademico, (quella si, dovrebbe spettare ad un rappresentante illustre dell’università italiana).
Un quotidiano cattolico – “La Discussione” – propone oggi un’intervista ad un personaggio noto del pensiero destra, Giano Accame, che spiega in due parole come “il conflitto a sinistra si sia aggravato con la sostituzione del vecchio e massiccio mito dei lavoratori con le minoranze omosessuali come nuove immagini di riferimento” e poi: “Abbandonate le rivendicazioni sociali, su cui anche la Chiesa poteva convenire, [...] si è rotto l’equilibrio che aveva visto anche Togliatti impegnarsi per inserire all’art. 7 della Costituzione il rispetto del Patti Lateranensi conclusi da Mussolini l’11 febbraio 1929.”

Però dietro la “censura” a Benedetto XVI c’è qualcosa di più profondo, di filosofico.
E la si scopre solo andando a leggere un po’ più del misero stralcio del discorso di Feyerabend pronunciato da Cardinal Ratzinger nel 1990 e riproposto dai sapenti de “La Sapienza” come ragione e causa della interdizione papale al suolo universitario.
Leggendolo in “Svolta per l’Europa? Chiesa e modernità nell’Europa dei rivolgimenti” ci si accorge che il discorso incriminato di Benedetto XVI è nientemeno che la riconsiderazione critica di quel credo tecnologico (tecnocrazia, “tecno-logia” come nuova “ideo-logia”) che intesse così profondamente le nostre società.
E tale riconsiderazione si avvale di uno dei principi cardine della Scienza: la relatività costante d’ogni sistema di riferimento.
La vulgata newtoniana dello scrutare dalle spalle dei giganti è fin troppo eloquente sulle conseguenze di questo principio.

In molti hanno così dimenticato che nello stesso discorso il futuro papa Benedetto citava anche lo storico Bloch, in un passo in cui questi riconsiderava il sistema eliocentrico in chiave relativa: «Dal momento che, con l’abolizione del presupposto di uno spazio vuoto e immobile, non si produce più alcun movimento verso di esso, ma soltanto un movimento relativo dei corpi tra loro, e poiché la misurazione di tale moto dipende dalla scelta del corpo assunto come punto di riferimento, così, qualora la complessità dei calcoli risultanti non rendesse impraticabile l’ipotesi, adesso come allora si potrebbe supporre la terra fissa e il sole mobile».
Il principio è noto ai teologi e dovrebbe esserlo anche per gli scienziati che vogliano praticare gli orizzonti meta-fisici della loro disciplina, giacché colui che non ha conoscenze etiche e filosofiche non può pretendere di esercitare un potere sulla complessità dei geni o, più genericamente, sulla natura.
Fatto sta che sotto questa luce ogni scientifica convinzione si esaurisce nello sbadiglio di una equazione: una convenzione, cioè, atta a migliorare la razionale potenza di calcolo commisurata all’avanzamento scientifico “necessario”.
«Un antico sistema di riferimento umano e cristiano – prosegue Bloch e con lui Ratzinger – non ha alcun diritto di interferire nei calcoli astronomici e nella loro semplificazione eliocentrica; tuttavia, esso ha il diritto di restar fedele al proprio metodo di preservare la terra in relazione alla dignità umana e di ordinare il mondo intorno a quanto accadrà e a quanto è accaduto nel mondo».
Se si ammette il principio di relatività sistemica, non si può non arrivare infine alla più estrema delle relatività: quella dell’uomo di fronte ad un Dio, o – personalmente lo preferisco – di fronte al suo Spirito.

Si comprende allora in che misura, secondo Feyerabend, la revisione della sentenza contro Galileo possa essere chiesta solo in nome dell’opportunità politica.
Non è forse opportunità politica quella di una scienza che non conosce più le differenze che la separano dalla tecnica e che può difendersi solo dietro strumentazioni laiche indegne della già indegna Rivoluzione francese, rifiutando, peggio di allora, la pluralità delle idee e del pensiero?
Vogliamo davvero liquidare le profonde complessità dello Spirito in questo modo, annegate in scientology e nella new age?
Ridurre la scienza ad un insieme operoso di laboratori al servizio delle telecomunicazioni globali, della cosmetica, del petrolio?
Allora il pensiero applicativo viaggia già a velocità della luce. La teologia diventa un inutile strumento di comprensione della realtà, in quanto ciò che dobbiamo pretendere di sapere dal cosmo deve sempre rispondere a ragionevoli istanze di utilità.

Non è vero, come è stato ripetuto fino alla nausea, che la tecnologia sia “neutrale”, che dipende dall’uso che se ne fa, che c’è un uso “buono”, quello in cui la tecnologia è al servizio dell’uomo, contrapposto ad un uso “cattivo” in cui il rapporto è invertito. Il problema vero che, a più di due secoli dall’inizio della rivoluzione industriale, ci pone la tecnologia, non riguarda i suoi aspetti degenerativi, il disastro ecologico, gli inquietanti tratti dell’ingegneria genetica, la guerra nucleare, che sono teoricamente reversibili, ma proprio i suoi usi più utili e apparentemente innocenti, nella produzione, nell’informazione, nelle comunicazioni, nell’alimentazione, nella medicina, che appaiono ormai irreversibili.
Il dramma contemporaneo non è la corsa agli armamenti, ma la corsa ad uno sviluppo che non si èuò fermare. Non è la Bomba, ma la Tecnologia.
(Massimo Fini, La ragione aveva torto, 1985, p. 154)

L’università dovrebbe esser custode della scienza non in quanto mero instrumentum della tecnica, ma come “etica” di questa tecnica. Eppure le “riforme” del sistema del sapere e delle conoscenze contemporanee (un sistema negativo, che punta all’iperspecializzazione per impedire la formazioni di coscienze critiche e la realizzazione delle individualità) mirano alla formazione del monopensiero ed alla riduzione progressiva delle menti (anche e soprattutto quelle scientifiche) ad ingranaggi d’un contesto troppo grande, incomprensibile, autoalimentato.
Se siamo meccanismi di una macchina ce ne sfugge la complessità: ecco il senso delle riforme che sul modello anglosassone hanno sconvolto il “sistema” delle università europee ed italiane in particolare.

Una domanda vorrei porre ad i professori anonimi de “La Sapienza”: e cioè se non abbiano essi perso, oltre che la passione per la teologia, anche il gusto dell’italianismo associandosi con chi conia l’orrendo neologismo di “frocessione”.
Dalle sinistre, invece, “radicali” gradirei sapere se non sia il caso di chiedersi come faranno a difendere le minoranze religiose ed etniche, quando non riescono a dare la parola alla maggioranza della cultura del loro paese: quella cristiana.
Duole constatare come ancora una volta il nostro beneamato Illuminismo non tardi a rivelarsi per quello che è: un oscurantismo.