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L’Etica. In Politica?!

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sarkopop

Sembra sbalorditivo per un italiano, al di là del vizio esterofilo della maggior parte della popolazione del belpaese, che in una nazione di poco vicina il dibattito intellettuale abbia ancora una qualche forma e consistenza e che i suoi riflessi si facciano anche intravvedere sulla stampa, in merito alla politica nazionale.
Dalle parti di place Gambetta due giorni fa distribuivano volantini della destra che pretendevano il riscaldamento climatico essere una menzogna della quale non tener conto alle prossime elezioni. Alle elezioni, in Francia, si parla anche di questo, ed il cambiamento di presidente è visto come una possibile influenza a livello internazionale su questioni di carattere mondiale.
Questo "gallocentrismo" offre il giusto pathos al dibattito consentendo se non altro di sviluppare una riflessione matura ed attiva sulla società e di contestualizzare il fatto politico interno.
Sarà forse l'attitudine francese ad identificare il pentagono (da queste parti il paese di Marianne si chiama così) con tutto il mondo, allora, ma il dibattito intellettuale da queste parti sembra esistere ancora.
E' il caso di un curioso articolo di Michel Onfray comparso il tre aprile fra le trame digitali del Nouvel Observateur ed intitolato "Le cerveau d’un homme de droite. Portrait de Nicolas Sarkozy".
Sebbene possa essere discutibile una fenomenolgia del reale totalmente basata sulla psicanalisi, come è quella del filosofo francese, Onfray arriva ad usare questo strumento per una analisi minuziosa del candidato.
L'articolo è la cronaca dell'incontro (commissionato da Philosophie magazine) fra i due, e vi vediamo Onfray impegnato ad estrapolare la consistenza etica e l'attitudine politica del candidato dell'UMP non da una serie di domande soltanto, ma dall'evento intervista, dall'incontro e dall'interpretazione gestuale.
Ne emerge una immagine in bilico fra aggressività e buonsenso. La forza della determinazione ed una freddezza a tratti idealista campeggiano in primo piano.

Traduciamo un passo:
[Io e Nicolas Sarkozy] intavoliamo una discussione sulla responsabilità, quindi sulla libertà, quindi sulla colpevolezza, da cui i fondamenti della logica della disciplina: la sua. Nicolas Sarkozy parla di una visita fatta nel carcere femminile di Rennes.
Abbiamo lasciato la politica dietro di noi.
Da allora non è più lo stesso. Essendo diventato uomo, sbarazzatosi degli orpelli del suo mestiere, fa il gesto del pugno chiuso sul lato destro del ventre e parla del male come di una cosa visibile, nel corpo, nella carne nelle viscere stesse dell'essere.
Credo di capire che pensi che il male esiste come entità separata, chiara, metafisica, oggettivabile alla maniera di un tumore, senza relazioni con il sociale, la società, la politica, le condizioni storiche. Gli pongo una domanda per verificare questa convinzione: in sostanza egli pensa che nasciamo buoni o malvagi e che tutto sia già regolato per natura.
In questo momento percepisco la metafisica della destra, il pensiero di destra, l'ontologia della destra: l'esistenza di idee pure senza una relazione col mondo. Il Male, il Bene, i Buoni, i Cattivi [...]. Tutto è deciso dal destino o da Dio, se lo si preferisce. Così il Militare, la Guardia, il Giudice, il Soldato in faccia al Criminale, il Nemico, il Contravvenente. Logica di guerra che vieta ogni pace possibile, un giorno.

Idealismo e destra nazionale.
Ed al di là delle posizioni parziali del filosofo, quello che fa riflettere l'occhio dell'italico straniero è la logica della politica ancora legata in qualche modo all'etica. Che poi vuol dire legata alla vita: una prassi dell'azione sociale come manifestazione di convizioni e visioni del mondo.
In Italia il dibattito delle politiche si è concentrato per lo più sul becero giustizialismo e sulle reciproche accuse di sfaldamento fra i due schieramenti.
Sull'insulto e sulla chiacchiera. Facendo presagire quella che oggi è la prassi parlamentare dalle nostre parti.

L'articolo di Michel Onfray 

Al margine. Teatro. Morte. Crudeltà. Scandalo.

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Lunedì 12 marzo 2007 a Milano è censurata per la seconda volta in Italia la performance di Rodrigo Garcìa, Accidens – Matar para comer.
Seconda volta, giacché la prima risale a qualche anno fa, quando la performance venne presentata a Prato. E si respira una certa intenzionalità nell'operazione del regista: Garcìa sapeva (avendolo appreso sulla sua pelle nel 2002) dell'esistenza degli articoli 544-bis e 544-ter del Codice Penale (Legge del n. 189 del 20 luglio 2004) che Italia vietano uccisione e tortura in pubblico degli animali.
Ma l'intenzionalità dell'operazione artistica, la volontà di un pubblico supplizio, emerge anche dalle pagine del Manifesto, dove leggiamo l'indignazione del regista argentino in una lettera che potrebbe entrare ufficialmente a far parte dei suoi materiali testuali.
La missiva ha il tono duro delle equazioni etiche di Rodrigo Garcìa. L'attacco serrato del moralista che rivendica il valore etico dell'andare a teatro.
Il paradosso, infatti, in questo spicchio infinitesimale di mondo, è che la società, nella forma dell'OIPA e (per reazione) della Procura della Repubblica di Milano, rifiuta uno spettacolo teatrale.
Le parole giuste per parlare di questo paradosso ce le fornisce Garcìa:

[...] mi proibiscono di fare la mia performance. [...] Lo proibiscono i giudici con scarpe di pelle, giudici con borse di pelle, poliziotti con camicie cucite dai bambini dell’Asia e la gente della politica che permette che la televisione sia uno schifo e che nelle strade pubbliche proprio in questo momento un prodotto venga pubblicizzato con un bebè di sei mesi che pensa o sogna di comprare non so cosa.
Di fronte a tanta ipocrisia e violenza ancora esistono edifici chiamati teatri che si offrono alla città come spazi o selve di resistenza poetica in assoluta utopia.

Nella performance un astice è appeso al centro della scena e microfonato. Un attore parla. Alle sue spalle uno schermo proietta scritte ed immagini. Il brano What a wonderful world scorre. Poi l'attore prende l'astice, lo prepara e lo mangia.
Nelle crepe di questa azione scenica si annida un tema ricorrente della produzione di Garcìa, ovvero la riscoperta di un rapporto diretto, etico, con il cibo perseguito attraverso un processo di riconquista. A l'uomo massmediaticus consumatore di panini surgelati Garcìa oppone il gesto dell'uomo che torna a donare la morte per nutrirsi.

Il nodo della questione non è neanche valutare o meno della bontà dell'operazione di Garcìa.
Il nodo della questione è chiedersi perché una istituzione assecondi la censura per il teatro.
Perché censurare una forma di comunicazione artistica il cui ruolo è esattamente quello di entrare in dialogo con la società?
Aiutare la società a costituirsi in valore. E' questo l'esercizio faticoso del teatro.
Dietro la censura dello spettacolo di Garcìa si annida un fatto ben più cruciale del se sia giusto o meno uccidere un animale in scena. Dietro l'atto odioso del mettere la benda sulla bocca di qualcuno si vede la logica pragmatica e crudele di una società che sta smettendo di essere sociale. Una società che si schiera in maggioranza silenziosa e fa quadrato a difesa del conformismo e dell'omologazione. Una società che non si indigna di fronte a quanto le culture ufficiali siano sempre di più delle culture di regime.
Culture da maggioranza silenziosa.
L'ambientalismo diventa uno strumento di consenso.
La retorica della sinistra assimilata al sistema si fa portabandiera di cause mediocri lucidate di ambientalismo e terzomondismo e pacifismo.  

Il gesto che l'attore di Garcìa compie in scena tocca le corde di un rimosso. Il rimosso della morte. Il riflesso catodico della morte è oggi esaltato e potenziato. Alla televisione, fra la pubblicità del deodorante e del telefonetto, assistiamo ogni giorno a fucilazioni, guerra, rapimenti, morte, distruzione. Alla televisione la morte aleggia.
Perché la stessa società che sta a guardare, che si nutre per somministrazione fluorescente di questa morte, resta urticata da un evento che ha coinvolto un attore, un astice e la platea, ovverosia un gruppo di persone ben più esiguo dello share dei giornali televisivi?

L'idea di morte è uno strumento potente di sollecitazione emotiva. Ma quando l'idea di morte si  tramuta in pornografia l'azione del fluoro venefico dei nostri dentifrici Colgate è più potente.
La rimozione della morte è uno dei miti della nostra società: la pervasività, la sovraesposizione come ai raggi ultravioletti ad immagini di morte ne annulla la presenza nelle nostre vite.
L'ultimo grande sogno dell'edonismo tecnologico, l'immortale cyborg, sta arrivando.
Ecce homo.

Ejzenštejn ci suggerirebbe con il suo montaggio delle attrazioni, che l'associazione di due immagini provoca una sincope improvvisa a livello nervoso. La produzione immediata di una terza idea, una sensazione a metà fra il riflesso condizionato di una bestia ed il pensiero associativo.
La televisione è un linguaggio delle attrazioni.
La televisione è un flusso associativo di morte e sorrisi, continuo ed implacabile.
L'isolamento di un oggetto su una scena, invece, ha la facoltà di eliminare la patina di polvere che l'abitudine sensoriale ha depositato sul quell'oggetto.
La scena ha il potere di isolare e riportare alla luce gli oggetti, che vengono riscoperti nella cornice astratta del boccascena.
La mente effettua un'opera di ricostruzione dell'oggetto, entrando in speculazione con esso. Chiedendosi il perché della sua presenza e ragionando su di essa.
L'oggetto morte è il centro della performance di Rodrigo Garcìa.
Ed a teatro l'oggetto morte riacquista il suo valore perturbante. La morte non è più un fatto pacifico.

Una società come la nostra non può tollerare che questa morte ritorni.
L'immagine, l'idea di morte è uno strumento ad uso esclusivo dello status quo.
La morte privata di una distanza catodica di sicurezza costituisce un risveglio. Possiede una forza tanto più viva quanto più reale: è uno strumento semantico di potenza straordinaria.

La piccolezza del nostro italico «fait divers» ne fa anche l'enormità: la proporzione microscopica di quanto è accaduto a Milano mostra che non ci sono complotti e non esistono tavole sulle quali si decidono le sorti del mondo. Una associazione ambientalista italiana traduce un atteggiamento globale e entra a far parte della forza di un sistema che si perpetua da solo, senza guida, in modo pervasivo e generalizzato, e che impone il suo funzionamento direttamente nell'ipofisi.
Un sistema autorigenerante.

Garcìa riprende intelligentemente questo rapporto diretto e poetico che il teatro possiede con la percezione anche nella prosa della sua lettera aperta. Quando si appella alla coscienza di un "tu" lettore. Quando sollecita una reale indignazione.
Una scossa alla logica pavloviana cui siamo sottoposti dalla pervasività dei media, dalla meccanicità delle operazioni mentali di fronte ad internet, alla televisione, ad un box interattivo.

Come una nuvola elettronica il mondo non sopporta più l'assenza di luce. Esso si trasforma in un unico grande occhio in cui la sola forma possibile della fruizione è il voyeurismo. Centinaia di satelliti allungano le loro ombre sui nostri continenti. La visione totale e globale, la presenza dell'occhio ovunque: una attitudine panoptica è sollecitata. Guardare da dietro la scrivania del lavoro. Dietro un tubo catodico. Dietro uno schermo al quarzo o al plasma o al cristallo liquido. Dentro ad un telefono.
La logica del consenso inizia esattamente da qui. Dalla visione controllata e dosata.
Il che fa la forza ustionante di un evento imprevedibile come il teatro.

La capacità elaborativa che il teatro esercita sulle forme della comunità umana è l'ultimo eroico baluardo contro la civiltà della morte. Contro una comunicazione assoggettata alla meccanica ed alla serialità esiste ancora la presenza e la possibilità di sperimentare la morte.
Il contemporaneo esercita una azione di potenziamento vertiginoso della condizione di deiezione: l'allontanamento dal reale per la conquista di una dimensione completamente virtuale comporta una abitudine alla realtà, ed alla sua inautenticità.
Come ha intonato qualcuno, il teatro e lo spettacolo devono essere operazioni reversibili. A dire attori ed oggetti come giochi di scena.
L'evento multimediale, il DVD, il film, il digitale sono reversibili. Possono essere ripetuti e replicati all'infinito. Il pulsante «rewind» alberga placido su tutte le tastiere che ci troviamo a maneggiare ogni giorno.
La fenomenologia del fatto scenico sta esattamente al contrario di questa visione.
L'esperienza teatrale è una esperienza irreversibile. Si basa sulla concezione stessa della vita.
L'errore che l'attore compie è sempre reale e non può essere eliminato o tagliato.
Le molecole di cui sono composti il palco e le presenze che lo popolano sono reali. Il palcoscenico, ad ogni replica, è soggetto a cambiamenti irreversibili, minimi o grandi che siano. L'attore sulla scena invecchia e suda e perde le forze.
Il pubblico trasforma in immagine la realtà e la mente ne stilizza le forme. La compresenza del passato e del presente e del futuro all'interno della cornice scenica sono il principio stesso del mondo.
Il teatro non è un gioco televisivo.

E non sarebbe la prima volta che lo spettacolo utilizza la morte, se una tradizione come la tauromachia risale alla più lontana scoperta dell'Essere nel mondo occidentale, nella Grecia antica. Come un ammonimento, l'uccisione del toro stava e sta a ricordare i limiti della bestialità e della brutalità. Circondare in un cerchio magico la morte per esorcizzarla ed assimilarla al reale. L'allontanamento schizofrenico della morte nel mondo occidentale odierno è agli antipodi di questa metabolizzazione spontanea e rituale.
Al consumo corrisponde sempre consumo. E l'immagine di morte è consumata come il dopobarba o la gomma da masticare.
L'arte antica della corrida stabilisce un confine sottile fra uomo e bestialità.

L'utopia del teatro è l'irreversibilità della condizione dello spettatore che per un istante di visione smette di essere gettato nella realtà e ne torna a percepire l'autenticità.
Icaro verso la luce fino a perdere le ali.

la polemica chez Oliviero Ponte di Pino

Parigi, la Francia, le presidenziali

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Nella Francia delle presidenziali, nella Francia delle elezioni sul filo del rasoio, dei dibattiti alla televisione e dell'inizio della politica mediatica (ma con molta più attenzione che dalle nostre parti). Nella Francia dell'indecisione totale, in cui le numerose free press distribuite nei mezzi pubblici e nel labirintico metro parigino sfornano sondaggi contrastanti e contradditori.
In questa Francia accade che la Polizia presidi la strada che ospita il centro direttivo della campagna presidenziale dell'UMP e che il presidio si estenda a tutta la citta, in una cappa di sadica tensione che ha il sinistro aspetto del giustizialismo dei palotini di re UBU.
C'è lo stesso quoziente di idiozia nelle operazioni della milizia di Sarkozy che lascia le racails indisturbate mentre carica i passeggeri del metro. La stessa illogicità spietata degli émeuts animati dalla violenza delle racailles.
Quoziente di idiozia e – sebbene Parigi non sia tutta la Francia – una capitale che somiglia ad una polveriera. Sarà il carattere della città, storicamenta abituata alla violenza come esplosione improvvisa ed irritante. La rivoluzione Francese. La resistenza delle esperienze comunarde.
Città di émeuts, Parigi vive la sua condizione anche nel contemporaneo.
Al punto che vediamo martedì 27 marzo un episodio impressionante. Alla Gare du Nord qualcuno non paga il biglietto e viene bloccato dagli agenti di controllo. Ora, questi agenti di controllo pare avessero uno strano prurito sulle mani, tanto da indignare il capanello di viaggiatori presenti. L'intervento di qualcuno contro le guardie è bastato a far esplodere le violenze e a far arrivare alla stazione le forze dell'ordine in assetto antisommossa.
Da lì il panico. Viaggiatori bloccati sulle banchine fra l'RER (il treno leggero), la stazione, il métro. Le racailles che impazziscono e saccheggiano le boutique sotterranee. Alcuni negozi sbarrano le vetrine. Altri diventano il rifugio dei passeggieri.
Alcuni, molti, vengono saccheggiati.
La polizia fa cordoni e carica tutto e tutti, ma non interviene quando ha sotto agli occhi episodi di rapine ai danni dei passanti.
Il caos.
Martedì 20 marzo la direttrice di una scuola nel XIX arrondissement, parte cinese di Belleville, si è opposta alla polizia assieme ad alcuni genitori indignati. I poliziotti attendevano all'uscita di scuola i genitori irregolari, i sans papier. L'insegnante è stata messa in "garde à vue" per sette ore. Forse per aver negato i valori della Repubblica.
La logica del ricatto e l'impressione che si tocchi il diritto alla scuola e all'integrazione dei bambini stranieri, hanno provocato la sollevazione degli insegnanti di tutta parigi.
Le scuole materne ed elementari hanno appeso striscioni di solidarietà dipinti dai bambini. "Sarko" minimizza.
Così come aveva minimizzato l'esplosione delle violenze nelle banlieu nell'ottobre del 2005.
L'anno passato, agli Invalides, le manifestazioni virulente contro il famigerato CPE, il contratto di primo impiego (simile, ma ben più garantista per il lavoratore, ai nostri co.co.pro.), hanno scatenato una vera guerriglia di strada fra le alte torri moderne di uno dei comuni più ricchi di Francia.
E poi i disordini a place Nation in aprile dove un sindacalista è andato in coma e dove appena una settimana prima le racailles avevano saccheggiato i manifestanti sotto gli occhi delle forze dell'ordine.
La logica dell'ordine ferreo a tutti i costi è una delle cause di questa aumento incontrollato delle tensioni sociali. E ciò che è paradossale è che la sicurezza è uno dei punti principali della campagna presidenziale dell'UMP.
Mr. R – rapper non troppo noto fra i giovani bianchi parigini, ma giunto agli occhi dell'establishement della stampa nazionale ed internazionale, a causa di una sua canzone assai irreverente in cui la Repubblica è paragonata ad un regime – rende bene l'atmosfera: nei suoi album sputa su tutto e tutti, parla di solidarietà e della necessità di una integrazione concreta, sul piano sociale e lavorativo. La miseria non può più esistere in un paese civilizzato: e la sovversione non è dett oche sia una alternativa da scartare. Rien a foutre.
Ecco fatto, Paris. La protesta monta con una virulenza in Italia sconosciuta. Se pure l'UMP uscisse vittorioso da queste elezioni ben più incerta sarà la realizzazione dell progetto di riforma del mercato del lavoro che ha in mente Sarkozy.
A giudicare da quanto successo l'anno scorso le resistenze dell'ile-de-france saranno impressionanti.
12.000.000 di abitanti censiti. Un polo di attrazione e centrifugazione irresistibile per la popolazione francese che fa reagire i gangli del paese con energia.
Le intenzioni della nazione viaggiano spesso in senso in verso alle intenzioni della capitale, se Le Pen – nel 2002 – si trovò di fronte a due milioni di manifestanti solo per essere passato al primo turno con Chirac: ovvero, Parigi protesta e si solleva anche contro "il volere popolare" cui si fa spesso appello anche in Italia.
Se sarko avra la Francia, forse, dovrà essere disposto a perdere il controllo di Parigi.

Topografia Berlinese. Pelle.

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muro

Sono segni inequivocabili. I segni della guerra.
Berlino ha una geografia lineare immensa. Ortografia del massacro, forza semantica e potere significante.
Rasa al suolo. Come Dresda. Più di Dresda.
Rasa al suolo e poi spaccata in due come una mela.
Su un corpo vivo la cui la pelle rinnova lasciando dietro di sé la scia del chiarore cellulare la città assorbe e restituisce la sua storia.
Il magnetismo di Berlino è il magnetismo della storia.
Città di guerra al di là del segno esteriore delle mitragliate sulle pareti del Pergamonmuseum.
Città di guerra per il chiarore del marmo nuovo incastrato in quei fori che nel '45 segnarono l'epidermide e la schiena stessa della porta di Brandeburgo.
Segni esteriori più sottili, al di là dello stesso esercizio di memoria a cui volgarmente la città è stata costretta ad esercitarsi, prima con la violenza della frattura del muro e poi con la demagogia di una ginnastica architettonica che evoca l'olocausto così come abbatte il muro per lasciare spazio al Sony Center.
L'asse arrivava fino a Tokio, n'est-ce pas?

Perché costruire una città sullo stesso luogo, si domanda il materialista?
Perché ripristinare edifici e fondamenta, rinsaldare il tessuto strappato della città quando sarebbe più facile trasformare il cumulo di macerie in un enorme mausoleo e spostarsi più a nord o a più sud dello Sprea?
Dimentica, il materialista, che la causa potrebbe essere la pericolosità di una città al crollo, abbandonata. Insediamento di truppe e battaglioni da panorama postatomico. Le moto che sfrecciano sulla polverosa Unter Der Linden.

Il che non sarebbe neanche cosa nuova visto quello che è successo da quelle parti. Parate naziste e squadroni delle SS. La notte dei lunghi coltelli. Le sfilate. Il rogo dei libri. L'entrata dell'imperatore.
E non sarebbe nuovo neanche per il nichilismo che impregna, letteralmente, i muri, le strade, i giovani agli angoli dei metro, quelli agli angoli dello Zoologischer Garten, quelli in nero che bevono vodka e fumano sigarette con facce solenni e mortali.
Le tracce degli anni ottanta. Le tracce dell'est povero e postcivilizzato stanno nei "chiodo" di pelle, negli stivali alti, i jeans stretti alla caviglia. Resta nelle spillette in metallo scritte in cirillico vendute agli angoli delle strade.

Una città risorge sullo stesso punto per conservare un valore simbolico. Istanbul non è mai stata Troia, benché a pochi chilomitri di distanza e con una forza strategica e geopolitica equivalente.
Roma lo sapeva e sparse sale su Cartagine, così da evitare la rinascita dell'essenza politica e bellica di tutta l'africa mediterranea.
Berlino si sviluppa sullo stesso luogo, ancora una volta. Ma la sua ortografia è ancora pericolante. Il verde invade il centro, nella misura in cui il centro odierno è la periferia di due città fuse fra loro.
Due città con un cinquantennio ben differente. Due periferie una faccia all'altra. E per di più in centro.
Berlino: periferia centrale.
Il ricco ovest relegava i tossicodipendenti al suo est, con il Tiegarten come zona cuscinetto piantata fra città e muro.
Logico dal punto di vista bellico.
Ragazzi dello zoo di berlino. Relitti della civiltà occidentale e della deviazione edonistica dell'ovest, sbattuti ad un passo dall'occupazione militare, ad un passo da quella barriera che simbolicamente spaccava Postdamerplatz e – passando per la porta – interrompeva il rapporto di continuità della città con la regione del Brandemburgo.
Ad un passo dal giardino zoologico c'è Charlottensburg. Città residenziale di lunghi autunni berlinesi. Ad est, proprio di fianco al centro storico insediato sull'isola dei musei, terreni vuoti, all'abbandono. Terreni per carri armati e controlli alla frontiera.
A sud est la vita, dura, dell'occupazione socialista. Kreuzberg, trasformato in ritrovo dell'omosessualità berlinese, quartiere verde e decadente.
Mai una svolta in un vicolo. Mai un quartiere che abbia una fine chiara e determinata.
Un continuo sfumare dall'architettura ultramoderna alla periferia. Più periferie.

Berlino è ancora un campo di battaglia.
La seconda guerra mondiale. La guerra fredda. Oggi: la guerra postmoderna al consolidamento di una topografia inedita e che ne faccia la nuova capitale della Germania.
Le gru lavorano ancora su una superficie immensa. Un superficie che contiene laghi e canali e campagne e quartieri sterminati. Nel ring freme la nuova civiltà del vetro e dell'acciaio. La Fernsehturm, invadente e surreale. Punto di orientamento e totem sacro piazzato al centro della distesa di cemento (ancora piena di "Terrains vagues", improbabile nel centro di una qualsiasi altra città) della Alexdanderplatz. Il nuovo Reichstag.
Intanto i vecchi simboli del regime sono lasciati (simbolicamente…) ammuffire: la vecchia zona amministrativa, grigia e razionalista.
Da una parte gli edifici dei ministeri. Giusto davanti filo spinato e reti. Le macchine che percorrono lo stradone.
Il razionalismo, il nichilismo.
Bahuaus della Volksbuhn. Il sogno tecnologico socialista ha investito questo paese per ben due volte, nella storia. Lo si legge e lo si respira in questa città priva di centro. In questa città di rette infinite.
Di prospettive prima che di boulevard.

Esercizio di memoria III. Fisica. Libri. [parte II]

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mitterand

Quai de la gare. E ci fa talmente freddo in quel momento, che il bavero alzato sembra troppo piccolo. Il vento è una lama tagliente che monta in direzione della station aérienne. Da questo métro non si emerge, si scende. Il vento è talmente forte che non fai neanche in tempo a piangere di gioia.
Percorrere i 90 metri della banchina che invece dovevano essere 75. 90 metri per tutte le stazioni dalla linea 1 alla 4. Primo Novecento, dopo un lungo dibattito e le riserve delle autorità, parte il progetto del métro parigino. Contribuirà alla decisione positiva la spinta propulsiva dell'esposizione universale che segnerà profondamente la geografia della città.
Ed i fiori di Trouffaut sono sempre all'esterno. Non gelano mai. Forse scaldati dagli sguardi alcoolici di quei tre clochard che se ne stanno tutto il giorno lì davanti, sul caldo invitante della grata, anche quando piove. Anche se la profondità sputacalore è praticamente al centro della strada e davanti ad i fiori.
I divani del negozio stiloso di fianco, invece, stanno tutti dentro. Loro non devono bagnarsi.
Et du reste… "Paris tire sa beauté de ses heurts: celui entre le Centre Pompidou et les petites rues qui l’entourent, le choc du métro aérien à Passy, l’Institut du monde arabe, la Tour Eiffel, la Bibliothèque François Mitterand."
L'asfalto si alza in onda lunga ed il rital la cavalca bordo senna. Lo sguardo verso l'alto. Il naso perso fra le nuvole.

Già. Tolbiac.
L'idea che la Francia ha di una biblioteca è po' l'idea che la Francia ha di se stessa.
Una enorme spianata in legno. Quattro libri aperti dell'altezza di cento metri ciascuno. dodicimilionidilibristoccabili. duecentocinquantamilametriquadridicultura. Scale mobili. Ascensori per accedere alle sale. Due lunghissimi corridoi identici che contornano un bosco di qualche ettaro al centro, in una sorta di fossato attorno al quale si articola una struttura architettonica imponente, fatta di acciaio, vetro e legno. Tessuti che diventano ferro e ferro che si cambia in legno e tessuto. Piloni di cemento enormi che sostengono le quattro torri e otto serie di logge sospese, ad evocare la solitudine monastica dello studio. La dimensione monasteriale e spirituale della ricerca nella enormità di questa cattedrale postmoderna, composta da microunità essenziali. Una biblioteca che riassume tutte le idee di biblioteca della storia.
La grandeur.
Si entra la prima volta nella Biblioteca François Mitterand con la bocca aperta. Il timore per la cultura. La convinzione che non si meriti davvero di entrare nel tempio. Un timore revenziale e lo sguardo ammirato, mentre le scale mobili scivolano lente verso il basso, al di sotto delle torri, fra tornelli elettrici, controlli di sicurezza, raggi X Y Z. Tessere che vengono mangiate senza essere deglutite da bancomat privi di faccia ma con tre braccia ed un culo a fessura.
Ma poi arriva il vento gelido dell'inverno. La pioggia sottile.
Il legno della lunga spianata circondata dagli scaloni assorbe umido.
assorbe
umido
La temperatura scende.
Le torri sono roventi. Dal vetro rilasciano calore. Quattro parallelepipedi roventi. La spianata nel suo punto più largo punta alla Senna, che scorre più in basso di qualche metro.
Per un qualche fenomeno irreprensibilmente legato alle leggi della termodinamica ecco che un vento fortissimo se ne va a spasso proprio al di sopra del bosco, raso all'esplanade, che diventa una steppa sterile e ghiacciata.
Altri parallelepipedi in forma di gabbie (o gabbie in forma di parallelepipedi) contengono qualche cespuglio sfortunato, piegato alle esigenze del nuovo umanesimo francese. Servono per il verde, non per le forme.
E del resto a Versailles non era così differente. Il giardino francese: la mano dell'uomo che configura le forme della natura. Speculum mentis.
Vento gelido.
Le travi gonfie di liquido si irrigidiscono, se possibile. Una brina sottile ma ben radicata copre tutto.
Il vento spinge.
Le passerelle antiscivolo non si vedono.
L'impotenza prevale.
Al di sotto delle torri ci si sente come nella prospettiva Nevskij battuta dal ghiaccio pungente.
Punti neri al di sotto della struttura che diventa pressoché invisibile.
E diventa pure impossibile aiutare la vecchia che appena più avanti scivola via.
Scompare nel cielo col suo ombrello dopo una lunga scivolata a vela sul manufatto vetroso sul quale si trova a camminare. La perfezione, oh yeah, enorme perfezione di un enorme i-pod con contenuti multimediali. Scompare nel cielo. Punto nero nella massa compatta delle nuvole che non lasciano intendere il cielo. vola via lontana. Neanche scomparisse nel blu dipinto di blu, enfoirée de Mary Poppins dei poveri.
S     A     P     E     R     L     I     P     O     P     E     T     T     E     !
E pensare che avrebbe fatto una impressione ben più drôle ai gars in basso che spippacchiano le prime clopes della legge antifumo francese.
Al gelo, s'il-vous-plait.
I pini del bosco hanno allungato la testa per cercare la luce al di là del fossato in cui sono stati reclusi. Reclusi loro. Reclusi i ricercatori che li guardano e non possono passeggiarci (prerogativa dei black lavavetri o dei pompieri forzuti, reclusi ach'essi dall'altra parte del vetro). Reclusi tutti.
La forza della natura li ha spinti troppo in alto nella loro disperata corsa verso la luce. Hanno esagerato, les pauvres. Ed ora non ce la fanno più, esili, a reggere l'impatto del vento che li aspettava proprio sull'ortogonale dell'esplanade.
L'attacco procede anche dal basso. La Seine sinuosa se ne frega dei fasti del buon François e
s    c    a    v    a
s    c    a    v    a
s    c    a    v    a
s    c    a    v    a
Il bosco è risucchiato. Gli alberi insaccati come mortadelle perché non crollino sulla superficie specchiata.
I pompieri sorvegliano regolarmente. Impassibilmente.
Attendono l'accaduto?
O lo prevengono?
…l'illusione della sicurezza…
La cultura come un fatto ostile.
La dispersione del calore. Il riscaldamento impossibile ma sempre al massimo.
La perdita di equilibrio quando tutto questo crollerà su sé stesso ed inghiottirà in una massa rovente le cinquecentine e i manoscritti della sala Y non meno che le enciclopedie ed i dizionari della consultazione libera.
Tutto.
Anche la dame du vestiare. Venti anni appena. E neanche un sorriso in un anno di visita.
Sarà che il rital oggi è nero come la notte più nera che possiate pensare.

Esercizio di memoria. Topografie. [parte II]

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Sans papier. E davanti un plotone di esecuzione in blu cobalto.
Manifestazione contro gli Interni (stavolta non c'è ambiguità) di un manipolo di bobo con qualche immigrato nel mezzo.
Una donna che rumoreggia al telefono cellulare e che ha tutta l'aria di essere una delegata del ministero, per come prende seriamente tutta la faccenda.
Un uomo con le scarpe a punta e la camicia svasata (chez celio puoi scegliere fra tre tagli della stessa camicia, a seconda se sei trendy o grasso) che dice "qui c'è materiale per un fondo graffiante".
Una donna grassa che grida "da qui non ci muoviamo". Intanto i sans papier veri tagliano il capanello di curiosi, completamente alcoolizzati. Completamente disinteressati.
Gli unici a stare fermi ed impassibili sono i flics. Che chiedono i documenti a chi entra in strada per andarsene a casa. E che filmano tutti e tutti. Con ben due macchine da presa assai "smart", per la verità.
In stato di occupazione militare non c'è legge sulla privacy che tenga.
Con la barba lunga ed i capelli corti si fermeranno forse un istante di più sui fotogrammi che mi riguardano.

Potere significante, appunto, piazzarsi al centro di Parigi, fra gli alcoolizzati e le puttane. Ma anche potere ambiguo del linguaggio, si potrebbe dire con un certo compiacimento.
Sarkozy stavolta è vittima del segno: la presenza in quella zona precisa (non la Defense, non il XV arrondissement, non il…) è un segno esteriore di solidarietà.
In realtà si tratta di una occupazione militare, che mette in chiaro, utilizzando più o meno volontariamente il codice semantico della guerra, un preciso atteggiamento mentale della destra francese.
Ottenere tutto. Ed ottenerlo per forza.
Intervenire con la presenza poliziesca solo quando il leader sbarca nella terra da colonizzare.
Al di là delle libertà personali.
Al di là dei diritti del cittadino.
In un gran fracasso di polizia e buone intenzioni.

Esercizio di memoria. Topografie. [parte I]

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Escodallosquatdiruestdenis.
Passando per la rue d'echiquier. Raggiungo la rue St. Denis.
Appena a sinistra, rue d'Enghien, un capanello.
Mi fisso come imbambolato. Sans papier. Striscione nero. Scritte bianche.

Rue d'Enghien è una via abbandonata al suo destino. Uno strano misto di disinteresse municipale, noncuranza poliziesca e convivenza più o meno pacifica.
Percorrendo la strada dando le spalle all'arco di St. Denis dopo quattro boutiques telefoniche (gestori scortesi, immigrati loschi al telefono) si entra nell'ombra di vecchi palazzi. Visto dal satellite questo scorcio di Parigi compreso fra la gare du nord, il grand boulevard e la rue Sebastopol sembra una specie di pelle di serpente. Ogni tetto in ferro una squama.
In particolare questo quadrilatero sembra condannato al destino che ha sempre avuto, ovvero di "porta", ingresso dal nord nel cuore dell'isola della città. Mercato dello spettacolo nel Rinascimento, giacché vi si organizzavano le aste per l'attribuzione dei pubblici giochi e spettacoli. Essendo la rue St. Denis la via nella quale il re entrava par prendere possesso della capitale. Fauxbourg appena al di fuori della cinta muraria. Un "di fuori" nel quale trovavano riparo i derelitti i mercanti e gli attori.
Nel XVII secolo questo ruolo "geopolitico" nel contesto urbano ebbe anche il suo compimento architettonico, con la costruzione dell'arco di St. Denis. Il centrale della serie di tre sul boulevard, due dei quali scampati per merito di proteste popolari (proprio come per la Torre Eiffeil e il Canal St. Martin) dalla cancellazione.
Terra di nessuno. Rifugio per pazzi ed alcoolizzati, ed ancora mercato. Comunità africane nere, nordafricane, qualche cinese. La rue de l'Echiquier e quella d'Enghien sono a maggioranza turca.
Due bar ristorante appena più al fondo, sempre provenendo dalla rue Fauxbourg St. Denis, dove loschi traffici avvengono dalle 24 di ogni giorno.
I turchi giocano. Fanno bisboccia. Trangugiano raki. E spesso si picchiano. Sempre per soldi. Quasi mai per una donna.
Una volta il proprietario ha sfasciato con disinvoltura una decina di piatti in direzione di un uomo.
I flics sempre in ritardo. Sempre un po' addormentati.
Una sala da té e libreria radical etnica.
Ma il contrasto vero è appena più indietro, a metà della strada, lussuoso salone con doppia scala scenografica dietro alte vetrine. Marmo.
Salone in nero con guardia del corpo piazzata davanti. Sede di un celebre stilista e gioielliere qualche tempo fa.
Ed in comune con il fumoso salone di fianco, un muro.
Sembrerebbe una sala biliardo un po' losca. In realtà è la sede del partito comunista Kurdo.
Sembrerebbe una sala ricevimenti. In realtà è il centro direzionale della campagna elettorale di Sarkozy.
Da qualche tempo la Rue d'Enghien è diventata il posto più blindato di Parigi.
Sede del centro direzionale del centro-destra francese o sede distaccata del Ministero degli Interni?
E questa è una bella domanda, perché, a giudicare dalle forze schierate in ogni angolo della strada abbiamo un vero fort knokx in piena Parigi.
Il che, se rimane appunto una ambiguità sul piano politico (quale altro candidato può permettersi di allontanare eventuali manifestazioni "anti" di fronte alla sede del suo direttivo politico?) rappresenta un segno preciso, un significante, installato proprio nella topografia della città.
Nel cuore multietnico del centro di Parigi, la sede della UMP. Un accostamento alla capitale dei poveri e dei diseredati?
O al mondo dei sans abris, SDF, clochards, che poco più a nord se ne stanno accampati sulla riva del Canal St. Martin?
Verrebbe allora da chiedersi come mai non direttamente nella banlieu problematica del Nord. Nel centro di un altro St.Denis, il 93, con il Seine davanti.