Tragedia endogonidia
scritto giovedì 5 ottobre 2006 alle 10:38Qual è il senso della comunicazione teatrale e della retorica nell’era della loro riproducibilità tecnica? Quali possono essere le modalità del tragico oggi? Non va scomodato Heidegger per constatare che l’aumento vertiginoso dei nuovi media ha allontanato oggi il linguaggio dall’esistenza autentica, ridisegnandone segni e limiti.
Sono queste le premesse fondamentali del percorso di ricerca di Romeo Castellucci e Chiara Guidi, che, in occasione del festival della fondazione Romaeuropa, hanno presentato, lo scorso fine settimana al Teatro Valle, l’episodio marsigliese “M.#10” della “Tragedia Endogonidia”.
Tragedia Endogonidia, ovvero una tragedia capace di generarsi da sola con modalità proprie dei microrganismi, assicurando cioè la sopravvivenza della specie con l’annullamento dell’individuo originario in due nuovi organismi. La Socìetas Raffaello Sanzio ha emulato questo processo biologico applicandolo ad una serie di episodi teatrali nei quali il senso tragico diviene universale a partire dall’ambiente (città e luogo) in cui lo spettacolo ha preso forma. Il risultato è un imponente ciclo teatrale lungo tre anni e comprendente undici episodi. Un sistema drammatico in crescita, in cui ogni stadio si realizza in un episodio, ed in cui il senso della polis è restituito dall’apertura della scena alla città, pur al di là dell’origine reale delle immagini.
Fin qui “endogonidia”: ma cos’è la “tragedia” per Romeo Castellucci? Il primo elemento di innovazione è la perdita di ogni legame col linguaggio classico, le cui modalità storiche (narrative), diventano insufficienti alla rappresentazione del contemporaneo. Non più il coro. Non più la parola. E, nel caso dell’episodio marsigliese, non più il corpo dell’attore.
Dal punto di vista di Castellucci la tragedia è un fatto “molecolare”: la rappresentazione smette di essere tale e diventa “concezione”, un insieme che accoglie senza giudizi i fenomeni più intimi della materia e che attraverso di essi pone allo spettatore il problema dei limiti della percezione. Non più la morte o la condizione umana esprimono il tragico, non più la storia, ma un insieme di segni elementari e primigeni. Un alfabeto in cui l’espressione è delegata alla percezione, ed in cui lo spettatore è tabula rasa, o ente percettivo, sul quale disegnare geometrie emozionali universali.
In Marsiglia #10 la scena si pone al di là del proprio linguaggio: insegue le forme rappresentative delle arti più differenti, inquina il proprio specifico semantico con quello delle avanguardie musicali e figurative, e si presenta in una forma radicalmente diversa. Una forma astratta, fatta di suggestioni emotive elementari, spiata dal pubblico al di qua di un diaframma, o di una placenta, dietro la quale si consumano ordine e disastro cosmici. Eppure il teatro è sempre lì, nel recupero della scenotecnica antica. Quinte e carrucole sono al servizio di una immagine che ha perduto ogni riferimento concreto. Il boccascena torna a parlare in prima persona, facendo a meno dell’attore e del corpo. Ci dice che non la morte, ma un verbo assente è il tragico contemporaneo.
Dopo un crescendo sonoro e visivo ai limiti della sopportazione ottica, dopo l’epilessia di tutti i sensi nella perfetta geometria di luci e figure, si affaccia al mondo un ente contemplativo. È l’uomo di fronte all’apocalisse, la voce dissimulata in uno struggente canto lirico. Le linee rette diventano macchie e curve mostruose. L’ens percipiens non può che prendere atto del disastro cosmico, ingoiato, infine, nel buio della tela.
visto al teatro Valle – Novembre 2005