Ensor = Hareng Saur = James (art) Ensor [fine]
scritto martedì 9 febbraio 2010 alle 09:46Ma Ensor non è solo pittore d’ombre: egli approccia, anzi, alla luce con entusiasmo sempre crescente nel corso della sua carriera, e sarà infatti conosciuto soprattutto per i violenti cromatismi puri delle “foire” e delle entrate solenni del Cristo nelle città carbonifere della “nouvelle âge du progrès”. Si arriva così a “Entrée du Christ à Bruxelles” del 1888, di cui la mostra riporta diverse declinazioni all’acquaforte ed a matita, di quella più celebre che l’artista teneva di fronte al pianoforte dell’atelier di Ostende, oggi conservata al Getty di Los Angeles e purtroppo non presente nell’esposizione parigina.
Del resto più che nella presentazione di alcune delle tele più conosciute di Ensor (“L’intrigue”, 1890; “La mort et les masques”, 1897) il valore dell’esposizione all’Orsay risiede nei numerosi lavori a carboncino e matita, che rivelano le trame più recondite del lavoro di Ensor, la sua tecnica capace di fare la plastica a partire dal tratto.
Il rapporto col colore e con la linea è in Ensor uno dei punti più interessanti: al no deciso alla luce come impressione ottica, fatto che lo rende anti-impressionista per definizione e per proclama, egli aggiunge quello altrettanto fermo alla linea pura, fatto che lo avvicina all’uso fauvista ed espressionista del colore. Scelte estetiche nette che lo portano ad una interpretazione originalissima del tratto come colore e forma plastica al tempo stesso.
Accade così che la linea in Ensor ambisca al rango di luce e che la luce sostituisca, anzi annichilisca, la linea. Si vedano lo splendido “Moïse et les oiseux” (1924), o “Le domaine d’Arnheim” (1890) e ancora “Adam et Eve chassés du paradis terrestre” (1887).
È del resto nei ricorrenti temi antico-testamentari che il colore assume una forza centrifuga tale da uscire dalla tela: è il caso de “Le Foudroiement des anges rebelles” (1889), che se paragonato ad altre raffigurazioni neotestamentarie dell’artista, in cui grosse superfici sono letteralmente impastate di carbone e grafite, con risultati non dissimili dall’encausto e dall’olio, mostra come per Ensor ci sia una continituà perfetta fra linea e colore, fra matita e pennello. Sono ancora – queste ultime – delle visioni malsane, in cui l’entrata festiva di Gesù in Gerusalemme è un chiaro annuncio di morte in una Bruxelles invasa da maschere e volti impegnati in orge eterne: stanchi ed affranti, invasati e tetramente festivi sono gli sguardi di questi uomini in tunica o giacca e cravatta, presagi oscuri della fine del mondo e della costruzione d’una nuova, più alta, torre di Babele all’acciaio pressofuso. È così smaccatamente antimoderno il senso della serie “Visions”, dedicata ai capitoli del martirio del Cristo di cui ricordiamo qui in particolare “Les aurèoles du Christ ou les sensibilités de la lumière” (1885), dove gli incubi si incarnano nei corpi degli adepti di Satana intenti a tormentare il crocefisso ed a rinnegare il divino in una parata bestiale.
In questi disegni e linee vorticose scopriamo una tecnica romantica, non dissimile dalle tempeste cromatiche di Turner (“Studio per l’entrata di Alessandro”, s.d. e “Grand-mère assise jouant avec son petit chien”, s.d.), trasferita poi nei colori sconvolgenti di opere come “Feu d’artifice” (1887). Oppure la linea si fa aperta, non conclusa, come si può vedere negli studi per “La colère” e “La paresse” in eccellente contrasto con la pulizia di certi giapponesismi che si possono trovare nel libro di disegni appartenuto alla famiglia Rousseau, che documenta la decisa intenzionalità di Ensor nel perseguire una maniacale esplosione del tratto ed una negazione del “bello” in favore del “bizzarro”, del barocco.
Ma è nelle masse, come abbiamo anticipato, che Ensor trova la più sicura espressione della sua arte.
Sono le ultime sale della mostra a rendere conto dei capolavori e dell’immaginario più propriamente ensoriano, sempre in bilico fra bande dessinée, artificio pittorico ed objet trouvé.
Assieme alle maschere collezionate dall’autore, sono esposte altre chincaglierie ed oscenità mortuarie, come una testa di morto con capello ed una sirena riportata dalla Cina, assemblage eclettico d’una coda di pesce con testa di scimmia impagliata su torso in legno.
Circondati da questi curiosi oggetti da gabinetto degli orrori compaiono, come usciti da una pièce di Molière in salsa nera, certi “Cattivi medici” (1892) impegnati a srotolar budella mentre scrivono col sangue “J’ai laissé l’éponge dans le ventre, peritonite se declarera”; oppure crudeli “Gendarmes”, dediti a riportar l’ordine nella megalopoli labirintica a suon di baionette insanguinate; e ancora clown impazziti che tengono compagnia a scheletri alla ricerca di calore e rifugio attorno ad una stufa, illusi di poter vincere la morte che già li ha colti; o altri scheletri che si fanno critici d’arte (“Masques scandalisées”, 1883; “Scheletre qui régard les chinoiseries”, 1885). Le fisionomie scheletriche sono del resto quelle più ricorrenti in Ensor, che ebbe più volte a ritrarsi in forma di cadavere e teschio, con sigaro, pennello o anche aringa salata nella bocca, e proprio a questi singolari autoritratti i curatori della mostra hanno voluto dedicare l’ultima sala.
Sono deliri infernali che sarebbero potuti scaturire dalla fantasia di Hieronymus Bosch; solo che in Ensor lo stesso affastellamento di corpi e torture si declina in mille orizzonti, tutti per lo più quotidiani: dal tema più espressamente religioso (“Les terribles tribulations de St. Antoine”, 1887), ai bagni di sole sulla spiaggia di Ostende (“Bains à Ostende”, 1890), alle delicate clownerie degli schizzi è tutto un pullulare di maschere feroci e biomeccaniche craighiane che si insinuano nelle pieghe dell’ordinario.
È una visione critica non solo dell’arte, ma del mondo industriale e della follia che lo popola.
Morti violente e maschere funerarie: la dimensione allucinata ed inquietante sta in queste supermarionette disabitate, in questi costumi carnevaleschi dagli sguardi vuoti e dalle vesti penzolanti.
Come se dietro alla maschera non ci siano che scheletri o languidi “cadaveri squisiti”.
Come se dietro alle luci della città si nasconda la morte e, ancora, un’altra morte.