ueda vs. boubat: umanesimo e ontologia
scritto lunedì 31 marzo 2008 alle 23:23
Due eventi colti in extremis, prima della fine prevista per il 30 marzo, alla Maison Européenne de la Photographie.
Due mostre dedicate ad altrettanti autori che in comune hanno la ricerca di una forza poetica “emozionale” nelle loro immagini, ma che sono opposti per metodi ed immaginario.
Da una parte l’essenzialità zen di Shōji Ueda in “Une ligne subtile”, mostra che ha riunito le visioni più conosciute dell’autore giapponese alle opere degli esordi; dall’altra le “Révélations” in movimento di Edouard Boubat, uno dei rappresentanti più significativi della fotografia umanista francese.
La foto è dunque un’emozione, taglio netto di una realtà che il fotografo espone sempre alla selezione decisa di un rettangolo: ma se l’attitudine di Boubat è quella di estrarre la sensazione direttamente dalla riduzione rettangolare di ce qui se passe, Shōji Ueda interviene all’interno del fotogramma, (dunque all’interno del mondo), segnando con un tocco sottile e quasi invisibile l’oggetto del suo sguardo.
L’arma di Boubat è lo scorrere del tempo, che viene colto con efficacia immediata, in una rappresentazione esatta del concetto di istantanea. È una fotografia di memoria, poetica in quanto umana, o meglio, in quanto celebrazione della vita e della singolarità dei volti e dei fatti: egli celebra l’irripetibilità di un momento.
Ueda è invece un architetto di immagine: la realtà per lui è interessante solo se soggetta a manipolazione, solo se la macchina fotografica, strumento di registrazione meccanica, riesce a trasformarsi in quinta scenica trasformando il mondo in teatro di figura. Basta una idea, una folgorazione, e Ueda è in grado di invertire la prospettiva, generare immagini al limite dell’astratto, trasformare tronchi d’albero in pennellate di china, bambini in giganti prepotenti, strade in piramidi di luce, dune di sabbia in yin e yang minimi, objéts trouvés in trouvailles mentali alla Salvador Dalì.
Se la fotografia di Boubat si occupa della dimensione diacronica quella di Ueda adotta la sincronia. Nelle sue immagini, così, il tempo si verticalizza: esiste solo il contemporaneamente, in una pausa – lo scarto dell’occhio che non trova points de repères – in cui l’eterno coesiste col contingente.
E allora oggi, nell’epoca dell’assuefazione all’istantanea ed al reportage, dove il tempo viene descritto in marcia verso un’unica direzione, al seguito insomma delle sorti umane e progressive, si sente maggiormente l’esigenza di una poetica immateriale come quella di Ueda, che (anche lui da un assunto di base umanista) è riuscito a sviluppare una tecnica declinabile all’assoluto dell’Essere. Inventore di una fotografia ontologica.
Toccante ritrovare alcune delle osservazioni che ci siamo scambiati nella visione comune della mostra. Aggiungo soltanto che il filosofo fotografo è forse ancora di più una visione dal futuro, un’arte che deve ancora venire. L’aspettiamo trepidanti, seppur immobili tra le macerie del ground zero dell’umano sentire.
eradamaichenonlofacevamo: grazie, anzi, dello spunto ontologico, che ho voluto mettere assieme alla visione del tempo, a mio avviso – come sai – prioritaria nel contemporaneo.
Riusciremo a rifiutare l’istante?
Se l’occhio riuscisse ad agire in senso metafisico allora perderemmo la malattia dell’occhio. Che è malattia della percezione, capace di polverizzare la memoria.
ma nelle foto di Ueda l’occhio non c’entra. anche se c’è tutto lo spazio.
Caro eradamai…
quello che dici è vero: l’occhio non c’entra, ma la percezione dello spazio si.
Eppure la fotografia è uno strumento che ha sempre qualcosa a che vedere con la visione, in quanto replica artificiale dell’occhio.
L’intuizione geniale (e forse inconsapevole in questa accezione “politica”, come accade nella maggior parte delle invenzioni artistiche) di Ueda è, lo abbiamo detto, lo sguardo metafisico, che mi sento di contrapporre allo sguardo istantaneo, più comune oggi ed artefice della nostra illusione di conoscenza.
La domanda è allora: è possibile una VISIONE METAFISICA ?
Storicamente sembra di no: ho cercato di dimostrarlo in un precedente articolo sulla malattia dell’occhio, che credo tu conosca: http://www.rk22.com/?p=215, ma sul quale è sicuramente possibile aggiungere, contribuire, approfondire… contestare.
Un saluto.
sì ma non dobbiamo dimenticare che nel transfert fotografico l’uomo non è soltanto tramite ma anche principio primo dell’essenza della fotografia. quel motore immobile [a meno che non si voglia fare una foto ben mossa] di odiosa aristotelica memoria. ergo più che chiederci se esiste la visione metafisica dovremmo riportare tutto all’estremocentroalto: l’uomo. e la visione umana è possibile. anzi è.