inverno invisibile [parte III]

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Allo Zorba sarebbe impossibile tracciare anche lontanamente la rotta di una sola delle particelle nell'aria. Perché allo Zorba enormi transessuali muovono in vortici eleganti il gas sulle loro teste a due metri dal pavimento. Allo Zorba il fumo si propaga neroviolagiallo verso l'alto e si poggia morbido e strisciante sul soffitto, in una gravità lunare inversa.
Allo Zorba il fiato e le braccia e i piedi e le mani e gli occhi non hanno il tempo di pensare all'aria. Ed anzi: sono tutti così numerosi ed incollati in questa sottile nebbia che la densità dell'atmosfera è come mummificata benché attraversata di continuo dalle frequenze della musica e delle voci e delle grida e delle conversazioni da ubriachi.
La folla non si muove né brulica. La folla si rimescola.
Si nuota in un enorme budino, allo Zorba. Non c'è niente da fare.
Ed il budino trema rapido alla base, sollecitato dalle spinte del concerto nello scantinato.
— E' quasi un miracolo che l'osso di seppia rimanga ancora ben ancorato alla barba
Se non si nuota nel budino c'è sempre la seconda alternativa: strisciare fra i piedi della folla ed uscire a dare boccate pesanti di vapore sulla discesa del falso borgo. Sembrerebbe una cosa da folli in gennaio.
Ma il tepore totale e cosmico si riversa già sulle vite di tutti. E sembra che in questo inverno qualcuno abbia scoperchiato tutti i vulcani del mondo. Che qualcuno abbia mischiato i mari tropicali a quelli polari e che le nuvole ed i venti gelidi siano un tutt'uno con lo scirocco rovente di Algeri. Tutti i forni del mondo sono aperti.
E non c'è scampo. 59 Fahrenheit secchi ovunque in Europa.
Tiepido inverno.
Tiepido.
Tiepido.
La birra cola sulle mani nelle gole nelle teste.
—- Ralenty
Lo sguardo di lui lo incrocia. Pelle olivastra. Cellulare in mano. Giacca scura. Occhi gialli giallo fuoco.
"La tua barba è bella."
Fahrenheit 73.41.
"Dovresti tenerla"
D o v r e s t i t e n e r l a
ed è come un passaggio lontano. Appirizione e sparizione immediata. Come una profezia.
Fahrenheit 72.20.
Le molecole si mettono comode. E la rotazione del capo non serve a spingerle in alto.
Non serve ad intervenire nel caos calmo della stanza deserta.

inverno invisibile [parte II]

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Click.
La luce si spegne.
Click.
Nella stanza buia la termodinamica fa il suo dovere. Il cosmo rallenta e perde via via l'inerzia che gli aveva impresso il calore accecante delle lampade.
Click.
E l'attrito fra molecole propaga il calore. Dal punto più caldo a quello più freddo. La riduzione progressiva del movimento. La tendenza cosmica a raggiungere il tiepido. Non punti di luce. Non punti di calore. Nemmeno l'esaltazione folle e romantica di qualcosa diversa da tutte le altre.
La materia si arresta. Lentamente.
Click.
110.12 Fahrenheit negli interstizi del calorifero.
Il big bang perde la sua spinta.
483.96 Fahrenheit sulla superficie specchiata della lampada alogena.
La galassia di Andromeda si stanca molto più di quanto non possiate immaginare.
97.89 Fahrenheit a forma di fagioli uno di fronte all'altro, sulla sedia.
Il cuore magnetico della terra cammina. Venti kilometri al secondo.
Siamo
Seduti
Su una enorme
Dinamo
In arresto ritardato.
Lentamente il calore viaggia di particella in particella alla ricerca della sua media matematica.

Click.

inverno invisibile [parte I]

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inverno invisibile

In quel momento un grappolo di molecole rallentava il suo moto oscillatorio casuale.
Anzi accelerava.
Anzi si innalzava in colonna verso l'alto.
Anzi. Pioveva come una tepesta solare fra le maglie di ghisa del radiatore ad olio e ne veniva immediatamente sparata via. Lontano come la palla di Joe di Maggio. Secca come la morte contro lo spigolo acuminato di una scaglia di pelle piantata nella crepa invisibile della carta da parati.
Un grumo di grasso sfrigolava felice e lontano da ogni orecchio umano, appena poggiato su di un grano ferroso acceso dal tungsteno rovente.
Sfere. Sfere. Sfere.
La complessità della polvere. Grani in sospensione.
La stanza era un brulicare di infinito.
Gangli al cui interno si disperdevano (o raccoglievano) universi interi.
Mondi di polvere. Corpuscoli in sospensione appena al di sopra del divano, pioviuti da qualche parte. Forse scampati al magnetismo della torre o al calcio sparato di colpo contro la palla, giù, nel parco di Belleville. Forse piovuti dritti dalla scia di un aeroplano.
Resti di cibo ed acari perduti nel nulla degli asteoridi, a cavalcare le onde imprevedibili dell'azoto festoso ed eccitato da tanti fotoni.
Appena sulla sua testa in quel momento una molecola di Sputnik rispedita al mittente dall'abisso cosmico. Acciaio temprato. Si sarebbe piantata come un coltello proprio nell'interstizio misterioso fra la pelle del dito indice e la madre dell'unghia. Laddove le scaglie di cellule morte si accumulano, senza spazzini che vengano e cercarle. Si sarebbe scagliata in quel punto e vi sarebbe rimasta per chissà quanto altro tempo ancora se solo non l'avesse confusa con il filo di monossido che si allungava grigio fra le sue dita. Una miscela tossica di anidride carbonica, zolfo e carbonio. Una nube non meno densa di quel nembo di vapor acqueo cui lei, la microscopica particella metallica, aveva miracolosamente scampato prima di essere proiettata nel nulla assoluto, nell'assenza rilassante dell'attrito.
Impigliate nella barba, fra la folta folla di batteri intenta alla manducazione del sebo ed i giganteschi sidecar che percorrevano in lungo ed in largo il suo corpo: il fiocco di un fiocco d'avena provieniente dall'illinois (o meglio, lavorato nell'illinois a partire dall'avena del massachussets), il resto mai rimosso di un globulo rosso, (si sarebbe quasi detto della banale emoglobina ossidata, anche se tutta la colonia dell'impronta digitale dell'indice destro, che periodicamente si accostava ad accarezzare i peli del mento era concorde sul fatto che si trattasse della monolitica volontà divina) ostinatamente incastrato esattamente fra le crepe periferiche del milionesimo poro a partire dalla piega destra della bocca, della grafite in scaglie di colore nero, una quantità infinita ed inquietante di micropolveri fra le quali troneggiava la punta acuminata dell'asbesto piovuto dalle pastiglie del freno di un pullman turistico targato ΠK 0354.
Ed ancora plastiche (dio, quante plastiche), frammenti di vetro, un cristallo svarowski quasi integro, la scaglia di pelle di un clochard, i resti dell'olio greco mescolato a quello italiano pagato a peso d'oro all'Unik, una parte infinitesimale dei materiali di risulta dello scantinato appena aperto a venti kilometri da lì, a Villejuif… anche se indubbiamente il resto più interessante di tutti era il frammento preziosissimo dell'osso di seppia raccolto nella lontana estate del 1985 sulle spiagge della Jugoslavia e che così a lungo era rimasto nel cassetto della sua camera di Roma, fino a quando la madre non decise di sostituire ai ricordi della sua infanzia una beautyfarm automatica di ultima generazione. E tutto finì nella spazzatura.
Se solo avesse saputo che quel microframmento del suo passato era lì. Ma soprattutto se avesse saputo le peripezie che ce lo avevano guidato: una volta e mezza il giro del mondo. Una impresa eroica fin dalla fuga picaresca dalla ciminiera dell'inceneritore all'Albuccione, la corsa a bordo della morbida gonna della tedesca in direzione di Pulau Penida (lei, la tedesca, non ci sarebe più tornata, delusa dalla vacanza mentre il destino volle che la seppia restasse lì quasi dieci anni), il tocco leggero dei piedi dei danzatori, disperso ormai fra i milioni di grani silicicicicicicicicicicicicicicicicicicici della sabbia. Fino a quando l'infradito gentile di una giapponese non decise di raccoglierlo e depositarlo al check-in dell'aeroporto di Bali. La corsa sul nastro. La folle amicizia con i frammenti di pesce secco incontrati per caso sulla borsa di kaimano dell'americano diretto a Francoforte. Il passaggio da una valigia all'altra, i lunghi voli nell'atmosfera fredda e stantia della stiva di due boeing nuovi di zecca… ed infine la planata libera sull'avenue Simon Bolivar diritto proprio nella sua barba.
Se solo avesse saputo.
Se solo avesse saputo quanto la sua idea di ordine contrastasse col caos calmo della sua barba.
Se solo avesse saputo quanti e quali equilibri avrebbe polverizzato il passaggio del rasoio affilato sulla pelle.
Qualcosa di simile ad una apocalisse, ma in forma di mentolo.
"Apocalisse mentolosa", l'avrebbe chiamata il pelo sfuggito all'altezza del pomo d'adamo.
Intanto, appena sopra la lampada accesa, una colonna di navi spaziali migrava verso l'alto. Nuvole rosa. Un bigbang di colore e riflessi.

jusqu’à l’ocean

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ocean

Come pasta di mandorle
La pollution
Mi ha riempito il cuore
e lo stomaco
Sarà l'ozono che intossica i miei giorni
O che non ho pile voltaiche
con me
Per ascoltare Thomas Fersen
Per ridere di Partre.
Non posso leggere che Leroy
E la sua fine del mondo.
Per dimenticare Jacques Brel
O non capire Gainsbourg
Ti basta
lasciare le tue stilo doppio AA marca Sony
Chez toi.
Per dimenticare Parigi
le sue strofe di métro
– cemento sotterraneo e fischi acuti -
Non basta seppellirsi
O gettarsi nella Senna,
Infezione oblunga
Jusqu'à l'ocean.

hard boiled

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hard boiled

Je vaudrais être comme Boris Vian
Dans j'irais cracher sur vos tombes
Blanc
Voix de noir
Noir
Peaux de blanc
Ou comme Belmondo e sa clope
Et Clint encore
Per un pugno di dollari j'aurais son coeur
Mais ce qui reste de moi
Dans cette été australe
C'est pas du bonheur ou de l'argent content
C'est l'éclatement soudain, articulé
De mon idée
Uh, ouais, de mon idée

hard boiled

doposbornia da bullismo

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 bulli in doposbornia

Cominciamo dai nomi: “bullismo” e “mobbing in età evolutiva”.Due mostruosità linguistiche.
In sincronia con tutti o quasi i fenomeni sociali più attuali, “dizionarizzati”, (già che ci siamo…), dalla lingua giornalistica. Per alcuni professionisti dell’informazione il termine sarebbe la traduzione italiana dell’inglese «bullying»…
Per ogni fenomeno una parola: “mobbing in età evolutiva”. Quanto sono cambiati i tempi dalle virili scazzottate dentro e fuori il liceo. Con quanto rammarico ricorderanno i nostri nonni di non aver picchiato il bellimbusto di turno che a tredici anni li picchiava con la trottola. E oggi ci si perde nelle definizioni cliniche del fenomeno.
Parole a parte, il bullismo fa parlare di sé sui giornali: dovere di cronaca, ma anche piacere del luogo comune, della chiacchiera da bar, della sociologia da quattro soldi. Le statistiche sono chiarissime: il bullismo aumenta. I ragazzi sono più violenti ed indisciplinati con gli adulti. Più crudeli con i coetanei. Spaccano e sparano. Incendiano e distruggono. Sembra lontana, lontanissima, l’immagine del bulletto un po’ ignorante, metal-punk, del Lorenzo che Corrado Guzzanti portò alle glorie dell’etere nazionale. Lontana, lontanissima, la semplicità della violenza che una tale sorta di bulli rappresentava.
Un po’ di numeri.
Secondo recenti statistiche il 33% dei ragazzi è «vittima» di bullismo ed il 45% ne è «spettatore» (e la domanda sorge immancabilmente spontanea: il rimanente 22% è composto di bulli?). Il fenomeno un po’ ovunque in Europa si concentra soprattutto negli istituti tecnici e professionali e fra la popolazione scolastica maschile. In generale in Italia il bullismo tocca il 73 % dei ragazzi (tenendo conto della violenza verbale). Il 21% infine subisce pressioni o minacce costanti. Le statistiche comunque sono sempre causa di allarmismi. Quando non c’erano i sondaggi i fenomeni semplicemente esistevano. E se ne parlava con meno preoccupazione: senza stare a sindacare sul mezzo punto in più o in meno… ma questa è un’altra storia. Nella fattispecie pensiamo al fatto che il sondaggio più vecchio sull’argomento bullismo, almeno in Italia, risale al 1997. Meno di dieci anni fa: siamo in grado di stabilire una vera e propria tendenza crescente su un periodo così breve?
La prepotenza però, lei, non è recente come le statistiche che la fotografano, se già nel 1200 le confraternite degli studenti e la goliardìa rappresentavano i maggiori problemi di sicurezza per una città di medie e grandi dimensioni. Numerosissimi sono a questo proposito gli editti comunali e le ordinanze prefettizie della maggior parte delle città europee che imponevano misure speciali a questi bulli prototipici, le cui attività principali alla veneranda età di 15 e 16 anni pare fossero le risse, il gioco d’azzardo e la prostituzione.
Non siamo nel medioevo: ma neanche nell’Umanesimo. Oggi gli opinionisti si dividono a colpi di riflessi catodici su “La vita indiretta” (sic). Sarà colpa della TV. Sarà colpa dello stato. Sarà colpa della non perseguibilità del reato di bullismo (come ci dice l’istruttivo e disperato sito dedicato alla materia). Di Prodi, Dini e Berlusconi. Delle mode e dei videogiochi. Di Maria De Filippi e delle sue danze buoniste. Della civiltà e del progresso. Della disgregazione della famiglia.
Le soluzioni sono molte, moltissime: chi invoca il braccio violento della legge e chi minimizza il fenomeno e sogna squadroni di Patch Adams che dagli ospedali si trasferiscano nelle scuole. Per regalare un sorriso ai bulli che, in fondo, sono degli emarginati.
Con veterocomunismo solidale, è questa una delle ultime uscite di Dario Fo, che dal suo blog parla e sproloquia su tutto e di tutti. Apprendiamo con interesse dal Nobel che «i risultati (delle attività creative), come nei corsi di racconto teatrale autobiografico danno sempre risultati stupefacenti per la vena creativa che emerge così rapidamente da persone che non hanno mai pensato di saper scrivere o recitare». Bene.
Certo, il fenomeno andrebbe ben scandagliato: ma ad occhio e croce ci sembra che l’emarginazione sia solo un fattore concorrente e che il bullismo si manifesti piuttosto con inquietante trasversalità sociale e nazionale.
Le traversate a cavallo della Francia per finalità terapeutiche cui allude ancora Dario Fo, non devono aver avuto l’effetto desiderato oltralpe, dove allo stesso modo che in Italia è emergenza: risale ad appena qualche settimana fa l’assalto all’autobus nella banlieu marsigliese, episodio in cui una persona è finita quasi carbonizzata per la “bravata” di tre minori. Ed un po’ ovunque nel paese è emergenza: il ministero dell’istruzione ha attivato anche un programma informatico, “Signa”, con il preciso scopo di effettuare statistiche sulla violenza nelle scuole, raccogliendo dati direttamente dalle segreterie. Ma pare che i risultati forniti dal programma siano molto più ottimistici della realtà, per via dell’omertà dietro la quale i professori nascondono le proprie umiliazioni quotidiane e, dato non trascurabile, per via del fatto che i rapporti del sistema informatico vengono pubblicati, creando una sorta di lista nera delle scuole che certo non incoraggia l'iscrizione negli istituti a rischio.
E sul fronte opposto le equipe di psicologi sono già pronte ad intervenire sulla sanità mentale degli insegnanti, sempre più vessati dai loro studenti.
Nelle residenze HLM (i palazzoni popolari delle periferie) l’aria è infuocata: ne sono testimoni i conducenti di bus, ad esempio, costretti a fughe e ad assedi o gli incendi alle autovetture che hanno avuto il loro culmine in ottobre 2005, appiccati soprattutto dagli adolescenti delle periferie.
Uscirà a breve, sempre oltralpe, un rapporto della Mutuelle générale de l'Education nationale (Mgen) sulle «pratiques du harcèlement en milieu éducatif» dove per la prima volta si affronta il problema dell’impatto psicologico delle violenze giovanili sui professori. Non c’è nulla di meglio, comunque, che una bella scazzotata fra amici, direbbe qualcuno: andiamo a raccontarlo agli insegnanti. Da “L’express” onLine sappiamo che «il 15% dei 1.150 professori oggetto di una ricerca dichiara di sentirsi vittima di azioni ostili. La metà di loro giudica la situazione traumatizzante e senza uscita. Infine il 35,8% presenta sintomi di stress acuto».
Ma cosa c’è di diverso fra i tuffi nella spazzatura del bel tempo che fu e le violenze di cui si parla oggi? Quello che ci sembra più inquietante è l’ossessione che “i giovani d’oggi” hanno rispetto alla comunicazione. Nella maggior parte degli episodi riportati dai giornali in questi ultimi mesi, infatti, il fattore più ricorrente è la documentazione delle violenze. Cellulari e palmari: l’occhio tecnologico si schiude e riversa i suoi bit sulla rete. Ed ancora il grande demonio ci mette lo zampino: youtube e googlevideo si intasano di violenza, così come la televisione. Già, perché i nostri ragazzi sembrano avere un futuro da comunicatori multimediali e sanno perfettamente che il modo più facile di ottenere audience è la violenza. Una “Cattiva maestra” lo ha spiegato loro fin dalla più tenera età. Le interfacce e le strategie della visione sono ormai un fatto genetico nelle nuove generazioni. Come nella ripetizione di un atto compulsivo collettivo non ci si accontenta più di picchiare il compagno più debole. Si vuole amplificare il gesto con un media: click e visite diventano un importante fattore di affermazione della propria, seppure virtuale, identità.
Riprodurre e trasmettere sono attitudini indotte dai media e dal web. Il mercato chiede. Il produttore risponde. Patch Adams non vince. Perché far ridere è molto difficile. Resta menare le mani: sareste disposti a fermarvi per strada solo per assistere alle schermaglie di due innamorati? E per gustarvi l’ultima rissa sotto casa per il posto auto?
Sebbene sia un costo per lo stato che deve fargli fronte, il bullismo giovanile risponde alle logiche del consenso del regime in atto: è la manifestazione di una interiorizzazione delle meccaniche della pubblicità e del naturale assorbimento della semantica dei nuovi media. Esattamente nello stesso modo in cui l’informazione asseconda, mostrandola, la brutalizzazione degli stati nemici dell’occidente ed il ricorso alla violenza ed alla tortura per l’affermazione di ideologie libertarie.
I giovani torturatori sono adepti del nuovo regime del consumo. Acquistano e si fanno acquistare. Inviano MMS di violenze sessuali così come ricaricano il credito della VISA sul web. E non dimentichiamo che i più pericolosi delatori, in “1984”, erano i bambini.
Freddi e spietati come macchine celibi.
Freddi e spietati come calcolatori.

Chi paga il debito? Antonio Rezza per Alberto Grifi

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il vidigrafo di Grifi

Tanto avventuroso il film della vita di Alberto Grifi quanto tristi i titoli di coda. Domani, giovedì 11 febbraio a Roma, presso l’Alpheus (www.alpheus.it ) Antonio Rezza proporrà il suo “Pitecus” a sostegno dell'inventore del cinema sperimentale in Italia, considerato fra i massimi esponenti internazionali della ricerca cinematografica tout court.
Per capire il senso dell’iniziativa cominciamo dalla fine, e cioè dall’oblio mediatico e dalla malattia che hanno distrutto la vita di Alberto Grifi, senza casa dall’anno 2000, e sfrattato da un appartamento nel quartiere Prati a Roma. Sette anni di vita nomade e precarie condizioni economiche. Da quasi un decennio ospite presso amici in varie città italiane nonostante la cirrosi epatica virale ed i tre carcinomi che gli sono stati diagnosticati. «Il bisogno di un alloggio è urgente e improcrastinabile», si legge nel comunicato di Antonio Rezza, che – specie nei suoi cortometraggi a metà fra videoarte, pop e sovversione anarchica – ha un debito artistico di sangue con il regista.
Pertinente, a questo punto è un rapido excursus nell’attività del cineasta.
Alberto Grifi, classe 1938, comincia la sua attività artistica nell’officina del padre, dove si costruivano macchine da presa speciali e strumenti sperimentali per il cinema. Il suo debutto nello spettacolo avviene nel ’63, quando lavora alla registrazione di “Cristo ‘63” del giovane Carmelo Bene, pellicola destinata, come del resto anche lo spettacolo teatrale, alla censura.
La speculazione e la destrutturazione del linguaggio cinematografico, che Grifi persegue in tutta la sua carriera, raggiungono i vertici nei suoi due capolavori: “Verifica Incerta” e “Anna”. Il primo, di spirito dadaista e realizzato in collaborazione con Gianfranco Baruchello, scardinava le convenzioni dell’immagine cinematografica attraverso la contraddittorietà del montaggio, usato a guisa di bisturi per vivisezionare la menzogna della società dello spettacolo. Il film suscitò l’entusiamo del gruppo Dada a Parigi e fu presentato da John Cage al New York Museum of Modern Art. Fra le altre cose “Verifica incerta” è servito ad Enrico Ghezzi per inventare “Blob”: il montaggio critico usato nel film, detto “detournement”, è un meccanismo ad orologeria innescato direttamente sulla successione dei fotogrammi, ed il successo di questa tecnica sviluppata per la prima volta in Italia proprio da Grifi, è provato dalla lunga resistenza della trasmissione di Ghezzi nei palinsesti di Rai Tre.
“Anna” fu invece il primo film videoregistrato in Italia, diretto con Massimo Sarchielli, e presentato al Festival di Berlino e alla Biennale di Venezia nel '75. A partire da un canovaccio approssimativo sulla vita di una ragazza presa dal mondo dei “drop out”, i marginali di piazza Navona, il film si snodava fra i canali del vagabondaggio della prima generazione europea di “scoppiati”: lo intesseva un patetismo volontario, fino all’atto di sovversione totale da parte dell’elettricista del film, Vincenzo, che sfondando le convenzioni della scrittura per lo schermo, entrava in campo e dichiarava il suo amore per la giovane donna.
Amore come elemento di sovversione dall’immagine, che nella sua innata forza tirannica rispecchia le logiche del mondo occidentale e consumista.
Amore contro la soggezione dello schermo e la riduzione del soggetto a scimmia da scena: in tal modo la rottura della convenzione, la ricerca di ciò che vive “fuori” dal rettangolo dello schermo, diventa un atto politico.
Ma la personalità di Grifi è sfuggente, ineffabile, mutevole: lo vediamo attivo come pittore, regista, cameraman, fonico, attore, fotografo ed inventore pazzo di dispositivi video-cinematografici: tutte attitudini che determinano una straordinaria e paradossale vicinanza ai pionieri del cinema come Meliés e i Lumière, dove il processo creativo e documentativo si sovrapponeva alla riflessione sulla realtà filmata e all’invenzione di macchine da presa e strumenti ottici come vere e proprie “nuove grammatiche della realtà”. Il cinema come fucina del linguaggio.
Nel '72 il “vidigrafo” serve a trascrivere su pellicola 16mm “Anna” ed il nastro magnetico viene utilizzato tenendo conto della sua inedita “ortografia”. In questa direzione va tutta la produzione di Grifi, che intuì, prima del digitale, il cambiamento di rotta e l’impatto dei nuovi supporti sullo stile dell’audiovisivo. “Anna” segna così il passaggio del cinema italiano all’era dell’elettronica. E del resto il processo creativo per Grifi è sempre un insolito miscuglio di reportage, finzione, documentazione, restauro, tecnica, impegno sociale, lotta politica, sovversione: sono esemplari i casi de "Il manicomio – Lia" e de "Il preteso corpo" del 1977, dedicati all'istituzione manicomiale. Il secondo, in particolare, è un ready made: objet trouvé fra le cianfrusaglie di un mercato delle pulci, freddo testimone della sperimentazione di un medicinale su persone con problemi psichiatrici con conseguenze devastanti su corpo e mente dei pazienti.
Infine l’ideale politico e “resistente” sfociò nei grandi reportage nelle zone povere del mondo, ed in un lavoro continuamente sospeso fra documentazione e fiction. Un lavoro con cui il cinema italiano ed internazionale hanno un debito di riconoscenza che è il momento di saldare prima che sia troppo tardi.

Sappiatene di più: http://www.albertogrifi.com
Partecipate all'iniziativa di Antonio Rezza: http://www.antoniorezza.com