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Paul Klee o l’alfabeto nella linea
scritto in la facoltà di giudizio | 4 Comments »Roma – «Una linea sogno. Non avevamo mai lasciato sognare una linea, fino a questo momento». È con queste parole che Michaux parlava della pittura di Paul Klee, evocandone a ragione la forza generatrice e sognante. La stessa forza percorre oggi le sale della mostra allestita in memoria del grande artista svizzero dalla Fondazione Memmo a Palazzo Ruspoli dal 13 ottobre al 7 gennaio. L’allestimento – curato da Olivier, figlio del grande collezionista Heinz Berggruen – mette insieme opere conservate a Parigi, Berlino e New York e le raccoglie in un buio mistico, in cui i quadri sono improvvise illuminazioni, segni di una realtà che pesca da una abbecedario infantile, elementare.
Segni, appunto, nell’accezione heideggeriana del termine. Segni che si presentano in sé come alfabeto muto della realtà ed espressioni di una durata oltre il confine stesso del mondo. Sinfonie di il tempo. Segni che si aprono ad una poesia al di là dell’astrattismo puro: è proprio la distanza di Klee da Malevič e Kandinskij ne fa la potenza fascinatrice.
Quando il processo di destrutturazione della realtà avviato da Cézanne si combinò nei primi del Novecento alle più recenti teorie psicanalitiche e quantistiche, l’astrattismo tentò la strada di una rappresentazione matematica della realtà. Concezione paradossalmente romantica, in quanto basata sulla convinzione che la matematica potesse essere un’espressione delle strutture che compongono il reale e per questo più schietta e diretta. Paul Klee si rese conto che il segno è sempre condannato ad una dimensione interpretativa: esso esprime la sua polifonia nei brevi momenti in cui deraglia dal linguaggio. «L’arte non riproduce il visibile, ma rende visibile».
Nella Bauhaus Klee si distingue per essere uno dei più convinti propugnatori di una tendenza panica, nella concezione dell’uomo come parte integrante della natura. Qualcosa di messianico si aggira nella linea di Klee, lavorata al tornio in una complessità che tutto comprende nelle spire di un serpente; lo stesso serpente egizio, Apopis, che gli servì da ispirazione nell’avvicinamento ad una concezione esoterica – warburgiana, direi – dell’immagine, destinata sempre ad occupare lo spazio di una significazione.
Nella pittura di Klee accade che il pulviscolo atmosferico si disperda in migliaia di pixel la cui forza allusiva travalica l’immagine nella densità della visione (“Costa classica”); accade che invisibili rapporti di forza, stati mentali ed emozioni si esprimano nell’elementarità direzionale di frecce (“Uccelli in picchiata e frecce” e “L’innamorato”). Oppure si apre un dialogo col passato pittorico: i volumi di Cézanne diventano forme esplicitamente geometriche, appese ai rami di un pero o solo sospese nello skyline di una metropoli (“Frutti sospesi”, “La città che punta in alto”).
Ed il tempo diventa durata, espressa nella complessità materica delle garze incollate e sovrapposte, a superare il discorso di Malevič con anticipo straordinario sulla pittura materica (“Il tempo”). Ma la forza rimane nel disegno arzigogolato, che si presenta ancora come il tentativo di comprendere la straordinaria complessità del mondo: macchine celibi o mobiles fatti di turbine ed eliche sono lì a rappresentare un porto di mare o insondabili perversioni. È per questo che l’astrattismo di Klee ha una potenza straordinariamente realistica: è un astrattismo che volta le spalle all’astrattismo.
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scarto: un universo fra scarpe e cappello
scritto in la facoltà di giudizio | No Comments »Roma – Un cassonetto. Un uomo ne esce. Il tempo trascorre fra le blaterazioni intellettuali di un folle o di un savio. Non importa: è un ente narrante incompreso e derelitto e triste e allegro ed ignaro alle cui spalle scorrono le vite di una umanità varia e stereotipata. Umanità cristallizzata in forme, abiti, professioni: spazzini, preti, operai. Umanità destinata a spogliarsi nella spazzatura; piegata ad un processo di consunzione costante ed implacabile. Consunzione ritmica, ma mai ossessiva o disperata, perché trattata con un bagno di sana stupidità organizzata, di surreale ed irresistibile gusto per le banane.
“Canto alla durata” di Peter Handke assume questa forma sotto l’ingegno figurativo di Riccardo Caporossi e Claudio Remondi e prende il nome di “Scarto”.
La durata, il tempo: la griglia in cui Remondi & Caporossi in anni di onorata carriera nel teatro di ricerca hanno costruito tutti i propri spettacoli. Ed anzi, in un certo senso la sintesi visiva a cui ci hanno abituati partecipa di un sentimento temporale. La durata è il nerbo degli spettacoli di Remondi & Caporossi. Un avvicinamento naturale, dunque, come quello a Beckett, già visto per “Altri giorni felici”.
Nel teatro di Remondi e Caporossi lo spazio è durata e la durata è esattamente “la sensazione di vivere”: l’uomo è un pezzo di universo fra scarpe e cappello. La forma si combina facilmente al suono, ad un ritmo quasi casuale e poi sempre più preciso. La realtà si anima perdendo la sua concretezza e rivelandosi in immagini ipnotiche e astratte.
E’ il teatro di Remondi & Caporossi, ben più vicino alla realtà di quanto non si creda. Ad essa aperto con rivelazioni improvvise e finanche virate improvvise dall’ironia dei nonsense trasognati ad un irresistibile scoppio di rabbia. Come quando, la testa nella televisione, infine, una di queste pazze ed insensate presenze sceniche segnala una emergenza. Segnala con terrore che la durata viene assorbita da un tubo catodico e prega la televisione di spegnersi, offrendole anche un ospizio perenne.
Visto a Roma – Teatro Sala Uno – Fino al 15 ottobre 2006
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