il sessantotto da uno che nOn c’era [IV]

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hitlerMASK - photorights artMobbing @ rk22.com
Non ne usciamo più.
Di tutte le urgenze possibili, tutte le urgenze possibili passano per la mia posta elettronica.
E così il mio livello di consapevolezza aumenta insieme al livello di consapevolezza globale.
Aumenta il livello di consapevolezza globale assieme al calore dei server.

Uhm.
Siamo davvero consapevoli, infine?
Se ricevo la newsletter sul Tibet ogni settimana ed ogni settimana ho l’incombenza di leggerla sarà un esercizio spirituale? Oppure sarà una replica in salsa ecosensibile del mio lavoro?
Perché i nuovi schiavi spirituali sono soprattutto schiavi della routine.
Schiavi di una interfaccia o di un telecomando.
Se i sentimenti si sottopongono allo stress della tastiera e del messaggio istantaneo è meglio prendersi una pausa dai sentimenti?
…o dall’istantaneità?

Sono sbarcato al nord. E sono finito in un entourage.
E questo entourage era la libertà: un appartamento spagnolo, dove l’apertura cosmopolita era la regola.
Ed ecco che tutti questi sconosciuti mi sembravano affascinanti e padroni di un mondo che io ancora non sapevo controllare.
Giovani europei capaci di una libertà che credevo assoluta. Di una tolleranza a me ignota.

Multiracial. Multicultural.

Ma se la libertà è soddisfare dei bisogni, che tipo di libertà ci stiamo comprando quando tutti i nostri bisogni sono inventati?
E addirittura: la libertà può diventare il grimaldello per appagare i propri bisogni personali.
O semplice disinteresse per l’altro. E per il suo punto di vista. Che poi è lo stesso.
Che libertà è questa?
Avere a disposizione il proprio tempo, come prima non sarebbe potuto accadere, col lavoro in fabbrica ed il lavoro da impiegato ed il posto fisso.
Fare il ricercatore. Avere il proprio tempo.
E poi non spenderne neanche un secondo per cucinare per qualcun altro.
Mangiare fast food per avere il tempo di guardare la televisione.
Vivere… alla giornata. Ma con una rete a proteggerti in basso.
Vivere. Cacare. Vivere.

Pasolini è morto per te…
Baudelaire è morto per te…
Luigi Tenco è morto per te…

Qualche tempo fa mi trovai ad invitare un’amica a restare ad una festa.
Un buon amico comune partiva ed era l’ultima possibilità di salutarlo.
Insistetti un poco.
E poi mi fu rimproverato che non rispettavo le sue libertà.
Che ognuno è libero di fare ciò che vuole e che non avevo alcun diritto di insistere.
Un invito affettuoso che diventa una violazione della libertà.
Non solo: una questione di libertà per decidere di rimanere o meno ad un picnic.
Una questione di libertà per questo: eppure siamo disposti a vendere le nostre vite, i dati che ci riguardano, a parlare delle nostre abitudini e semmai ad influenzarle, in cambio, magari, di una ricarica da dieci euro sul cellulare.
O dell’iscrizione alla giusta causa della newsletter per il Tibet.
Ma la libertà è un fatto relativo?

Socrate suicida per noi…
Heidegger è morto per te…
Nietzsche è morto per te…

teleObSSession - photoRights artMobbing @rk22.com

Abbiamo così inventato una libertà fachira. Una libertà che mangia se stessa, perché la sua necessità primaria è l’abolizione dell’altro.
La libertà di vedere il nuovo documentario di Moore noleggiato nuovo fiammante da blockbuster ed indignarci.
Non di noi stessi, però.
Libertà fasulla, allora, perché la più grande delle libertà è fare con l’altro.
Se non per l’altro.

Così anche chi mette in luce il meccanismo di assorbimento della protesta da parte dello status quo, come Marcuse, è fachiro a sua volta. È così, certamente.
E questi nuovi allibratori si innalzano su cosa?
Su una massa che ha tutti gli strumenti apparenti per la conoscenza, ma che non comprende che i medesimi strumenti sono qualcosa pronto ad esplodere. Così come un DISASTRO atomico.

Documentario sugli inizi dell’occupazione cinese in Tibet.
Rimango stupito di vedere un fatto comune ad ogni rivoluzione in ogni parte della terra: si bruciano i libri.
È preistoria rispetto a quanto è possibile oggi fare con una sequenza numerica.
Possiamo perdere la memoria.
Perderemo la memoria.
E quel che è peggio è che in pochi (nessuno?) se ne renderanno conto.

Questi cosmopoliti.
Questi residenti all’estero passano così le loro giornate.
Ad ogni discussione si apre l’i-mac. Si connette la wireless. Si apre wikipedia.
E tam.
La soluzione.
La soluzione dunque non è più nei nostri cervelli?
E la rivoluzione? Dov’è la rivoluzione?

Epoca della DELOCALIZZAZIONE TOTALE la nostra era sta delocalizzando le conoscenze.
Significa che le nostre conoscenze, i nostri appunti, i nostri ricordi, le nostre sapienze più intime non albergano più nelle nostre tasche.
La civiltà latina aveva fatto della delocalizzazione il proprio punto di forza.
Delocalizzazione della cittadinanza romana, che non dipendeva più dalla nascita in Roma.
Delocalizzazione della formazione, con la crescita intellettuale del patriziato romano in Grecia.
Delocalizzazione della guerra, con l’allontanamento delle frontiere, e quindi degli scontri, dal centro nevralgico dell’impero.
Delocalizzazione: immaginate un condottiero come Pompeo quanti anni passò lontano da casa.
E quanti anni per Cesare?
Le culture nomadi dei nuovi continenti vivano anche esse nella delocalizzazione.
La differenza è che in tutte queste civiltà esisteva un bagaglio al seguito.
Un bagaglio chiamato cultura, per cui l’uomo ne era il legittimo proprietario anche ALTROVE, in quanto faceva parte integralmente di se stesso.
Con questo bagaglio l’uomo era pieno anche se nudo.
La nostra civiltà dell’altrove ha favorito lo sviluppo della mobilita INDIVIDUALE arrestando però il movimento della cultura, concentrata sempre di più in basi dati e centri di elaborazione di calcolo.

Tutte le verità che ho l’impressione di portare nelle mie tasche con qualsivoglia strumento di registrazione tecnica albergano sempre di più in un solo punto cartesiano.
Sono libero, insomma, di consultare una sola fonte.
Così lontana così incredibilmente vicina.

Società della DELOCALIZZAZIONE TOTALE le nostre società hanno creato solo un’apparenza di movimento. Perché la VELOCITA’ non va confusa col MOVIMENTO.
Perché virtualizzando le conoscenze ed i saperi abbiamo l’impressione che essi si muovano con noi, quando invece restano fermi.
Fin quando non potranno più seguirci neanche nei sogni, come forse già accade.

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Fra i membri della nuova barbarie cosmopolita (che non corrisponde al cosmopolitismo) va molto di moda lo Tziget festival, manifestazione rock che ha luogo ogni estate a Budapest.
Andai a Budapest nel lontano 1999.
Ricordo una città di incroci, priva di piazze dove incontrarsi.
Ricordo un abisso inospitale per un figlio del G8.
Un abisso che ci costrinse a qualche maltrattamento poliziesco. All’inefficienza dello stato postcomunista che non sapeva ancora cosa farsene del turismo globale (che in pochi anni diventerà SESSUALE).
Fummo costretti a dividerci a causa d’un furto.
E restammo in una caserma e poi sotto la pioggia in attesa che un interprete ubriaco di vodka ci dicesse che era colpa nostra non si capiva bene di che.
E restammo a guardare il ladro che aveva distrutto il nostro vizio del viaggio uscire tranquillo.
Ricordo anche che nella povertà ancora incredibile di un paese che aveva i palazzi reali del centro pieni di senzatetto, cominciavano a spuntare i primi templi del consumismo.
McDonald’s e KFC. (Io vedevo per la prima volta un KFC, lì, in mezzo ai detriti del muro, ce n’erano già a centinaia).
A Gyor restammo un pomeriggio a spiare quelli del posto che avevano la nostra stessa età fare la coda per entrare al McDonald’s mentre nelle taverne c’eravamo solo noi.
Il nuovo avanzava.
Oggi una specie di rito collettivo di espiazione delle differenze con l’occidente si tiene ogni anno a Budapest. È un festival rock.
Dovrebbe ricordare Woodstock.
Ed i giovani europei no-global ci si sentono a proprio agio anche a causa i quei primi fastfood.

Prendo questa citazione dalle memorie di Giuseppe Spezzaferro sul Sessantotto:
«E’ corretto dire che il delta odierno è stato creato dal fiume sgorgato nel Sessantotto, perché ad egemonizzare la cultura di quegli anni è stata la parte legata a schematismi ottocenteschi costruiti sulla malvagità del capitalismo, sull’autoritarismo liberticida, sul paternalismo ipocrita e sulla borghesia rapinatrice (oltre che sulla religione oppio dei popoli e sulla dittatura del proletariato).»
E rispondo che il fenomeno trae origini più profonde nel materialismo illuminista.
Che ha inventato il diritto alla felicità, pensando allo stesso tempo che lo spirito fosse vapore balsamico.

Leggi le memorie sul Sessantotto di Giuseppe Spezzaferro che ispirano la serie “il sessantotto da uno che nOn c’era”

Allah, Google, i pescivendoli [epilogo]

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digitEpilogue - photorights artMobbing
Click.
Apro il mio portatile.
Click click click.
Goooooooooooglemap.
Magari una schiena.
Magari anche solo i tappeti. O i mucchi di scarpe.
Magari un commento.
Escludo i supermercati e le attività commerciali.
Escludo tutto.
tuuuuuuuuuutti i layer fuori!
Voglio solo la consapevolezza.
Voglio solo i commenti.
Voglio sapere, perché la realtà è più vera se è registrata o fotografata su Google.
Trovo solo WIFI. Public WIfi.
A Poissonniers c’è un public wifi?
Uh?
è questo allora? Allora è questo?
Ah si?
Anche Dio lo passano in wifi?

Allah, Google, i pescivendoli [III]

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moskeeeeeeeeeee - copyright artMobbing @ rk22.com -
Avresti sbarrato gli occhi, per dio.
Anzi, avresti fatto tremare tutto il tuo silicio nonspirituale.
Avresti visto schiene.
Centinaia, migliaia, di schiene.
Poissonniers, poilonceau, richehomme, myrha.
Tutte occupate.
Quelle che montano, come richehomme, sono impercorribili.
La carreggiata è una distesa in preghiera. Non c’è verso di passare.
Poissonniers rimane ribera, è vero, ma bisogna camminare sulla carreggiata.
Scarpe dappertutto.
Teppeti ovunque.
Per farli pregare al coperto ci vorrebbe più di una moschea.

Cammino su un tappeto di devozione.
VOLO.
E sento le preghiere del minareto solo da lontano.
E rabbrividisco.
Chi passa, come me, è silenzioso.
Forse si pone il problema di Dio.
Silenzio!
Si prega per le strade.
L’alzarsi e l’abbassarsi muto delle teste fa rumore.
Come un fruscio generalizzato.
Fruscio in decibel.
Forse è il fruscio di Dio.
Ed il fruscio di Dio si declina in decibel.
Rumore silenzioso.

Mi sembra tutto poco lucido.
Alla fine dei poissonniers ci siamo. Il boulevard.
La strada lo incrocia a 30°, di taglio.
Un marciapiede accompagna l’intersezione, arrotondato, verso Barbes.
E’ l’ultima penisola di corpi nel traffico.
I pedoni, ordinati, aggirano, passando sull’afalto della pista ciclabile.
Più avanti una serie di mendicanti e di storpi hanno smesso di allungare le mani alla folla.
Pregano pure loro, prostrandosi ad Allah come possono.
Come Allah permette loro.
Come Allah ha deciso per loro.
Più avanti ancora il solito traffico di marlboro, proprio al riparo, sotto i pali della station aérienne.
E potrei parlarvi di che novità tecnologica rappresentava questa stazione.
Sogno tecnologico o riparo per gli spacciatori di Marlboro?
Il tempo ha deciso per la seconda opzione.

ueda vs. boubat: umanesimo e ontologia

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Dunes, portrait de M. Sohji Yamakawa, 1984
Due eventi colti in extremis, prima della fine prevista per il 30 marzo, alla Maison Européenne de la Photographie.
Due mostre dedicate ad altrettanti autori che in comune hanno la ricerca di una forza poetica “emozionale” nelle loro immagini, ma che sono opposti per metodi ed immaginario.
Da una parte l’essenzialità zen di Shōji Ueda in “Une ligne subtile”, mostra che ha riunito le visioni più conosciute dell’autore giapponese alle opere degli esordi; dall’altra le “Révélations” in movimento di Edouard Boubat, uno dei rappresentanti più significativi della fotografia umanista francese.
Deux petites filles, Paris, France, 1952
La foto è dunque un’emozione, taglio netto di una realtà che il fotografo espone sempre alla selezione decisa di un rettangolo: ma se l’attitudine di Boubat è quella di estrarre la sensazione direttamente dalla riduzione rettangolare di ce qui se passe, Shōji Ueda interviene all’interno del fotogramma, (dunque all’interno del mondo), segnando con un tocco sottile e quasi invisibile l’oggetto del suo sguardo.
L’arma di Boubat è lo scorrere del tempo, che viene colto con efficacia immediata, in una rappresentazione esatta del concetto di istantanea. È una fotografia di memoria, poetica in quanto umana, o meglio, in quanto celebrazione della vita e della singolarità dei volti e dei fatti: egli celebra l’irripetibilità di un momento.
Ueda è invece un architetto di immagine: la realtà per lui è interessante solo se soggetta a manipolazione, solo se la macchina fotografica, strumento di registrazione meccanica, riesce a trasformarsi in quinta scenica trasformando il mondo in teatro di figura. Basta una idea, una folgorazione, e Ueda è in grado di invertire la prospettiva, generare immagini al limite dell’astratto, trasformare tronchi d’albero in pennellate di china, bambini in giganti prepotenti, strade in piramidi di luce, dune di sabbia in yin e yang minimi, objéts trouvés in trouvailles mentali alla Salvador Dalì.
Petits naufragés, 1950
Se la fotografia di Boubat si occupa della dimensione diacronica quella di Ueda adotta la sincronia. Nelle sue immagini, così, il tempo si verticalizza: esiste solo il contemporaneamente, in una pausa – lo scarto dell’occhio che non trova points de repères – in cui l’eterno coesiste col contingente.
E allora oggi, nell’epoca dell’assuefazione all’istantanea ed al reportage, dove il tempo viene descritto in marcia verso un’unica direzione, al seguito insomma delle sorti umane e progressive, si sente maggiormente l’esigenza di una poetica immateriale come quella di Ueda, che (anche lui da un assunto di base umanista) è riuscito a sviluppare una tecnica declinabile all’assoluto dell’Essere. Inventore di una fotografia ontologica.

la nuit des abysses au jardin des plantes

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abysses 1
Il s’agit de présences magnétiques. D’éclairs dans le noir de la nuit aquatique.
Mais il s’agit de vie, même si affreuse. Vie quand même.
« D’ailleurs ils sont tous moches » : il a raison de le dire, le gamin à coté de moi à l’occasion de « Abysses », l’expo organisé par Muséum national d’Histoire naturelle dans la galerie de Minéralogie du Jardin des Plantes qui va se terminer le 8 mai.
Oui : ils sont tous moches les êtres des profondeurs océaniques, mais ils représentent une vie tant forte que fragile. Fort, car l’esprit d’adaptation des espèces est étonnant pour complexité et ténacité ; fragile car la difficulté des environnements où il n’y a ni lumière ni nourriture oblige les organismes qui les habitent à une hyper spécialisation tel que le plus petit changement peut leur être fatal. Et la surface qui auberge les hommes influence les profondeurs abyssales.
Comme ça, dans l’émergence environnementale généralisée on découvre aussi que la faune de l’entre-deux eaux et du fond des océans, représente plus de 60% de la surface du globe, et bien que l’activité humaine y ait un impact fondamental que ceux-ci ne sont protégés par aucune convention internationale.
abysses
Moches, donc, bien sur, mais uniques, aussi… en effet cette hyper-spécialisation a rendu les structures des organismes des abysses incompatibles avec les conditions “de la surface” au point que jusqu’à maintenant on n’avait jamais réunis ensemble une si grande collection d’êtres de la nuit océanique.
Au centre de la galerie un ensemble d’aquariums contienne ces organismes conservés presque comme on peut les voir en nature. Au fond un documentaire où les organismes abyssaux semblent des fantômes fantastiques. Les deux cotés du couloir noir (on est sensé de reproduire la descente dans la fosse des Mariannes) représentent les différentes couches des océans : ce qui est liquide obéit en réalité à des lois analogues à celles qui règlent les stratifications des terrains. Et à chaque couche sa faune.
Un univers en bioluminescence où la ruse pour la survivance met en jeu couleurs, éclairs, transparences qui obéissent aux lois tout à fait uniques d’un univers apparemment invivable et loin mais qui a un rôle aussi important que la surface dans la chaîne alimentaire globale.

Allah, Google, i pescivendoli [II]

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google o allah?
Alle 13.30 però Parigi me la dimentico per davvero.
Dimentico tutto, anzi.
E mi pare di affondare in un sogno magnetico.
Vedo tutto dietro una lente di plastica. La luce parassita entra in un istante e solca lo sguardo di taglio.
Lunghe righe convesse tracciano la superficie umida delle mie iridi.
Bagliori.
Mi sembra tutto fotografato da una Holga.
Mi sembra tutto troppo strano.
Sarà che ho la maglietta intrisa della sera prima.
Sarà che ho il maglione intriso della birra della sera prima.
Sarà che ho dormito poco.
Sarà che le viscere mi si rivoltano in uno spasmo e che le sento incollate dal resto della schiuma.

Non basta neanche il croque che mangio, disgustato.

Sarà il fumo blu?

O forse è reale.
Bisognerebbe controllare su google map se il giorno in cui il punto geometrico spaziale, il satellite, è passato sulla precisa vericale dei poissonniers, bisognerebbe domandarsi se questo punto inesistente, se queste ascisse ed ordinate senza volume alcuno, non siano esse per caso passate di qua, sulla verticale dei poissonniers proprio di venerdì.
Magari un venerdì alle 13.30.
Magari anche lui, stanco, ubriaco.
Reduce da una nottata in cui il sole ha lambito di sbieco soltanto i suoi pannelli fotosensibili e pertanto stanco.
Satellite stanco ed ubriaco.
Stellite dopo la festa: guarda qui, satellite.
Guarda sulla verticale della rue poissonniers alla una e trenta minuti del pomeriggio.
Di venerdì.

Allah, Google, i pescivendoli [I]

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streetbière - photorights artMobbing @ rk22.com
La notte ai tre fratelli è stata.
Nel senso che è passata.
Mi stringo nel saccoletto. E non so dove sta il nord e dove il sud.
Anche perché in barba alla persona geografia di Parigi da questa parti quando si va a sud si sale e quando si va a nord si scende.
Dice: e allora?
Allora nella precipua geografia di questa città quando sei a nord e scendi la discesa di solito vai al centro.
Quando sei ad est e scendi la discesa.
Lo sai: vai al centro.
Qui no.
Perché poissonniers contorna la collina di montmartre e si lascia dietro una discesa, fino al peripherique.
Per cui, se applichi il principio della discesa ti trovi a fare il viados sul raccordo anulare.
Oppure ti deprimi semplicemente.
Oppure non sai più tornara a casa.
Ora però non cado più nella piège.
(e ce ne è comunque voluto di tempo, e ce ne sono voluti comunque di amici nel diciottesimo)
Ora però non so neanche dove sto io.

Alle 13.00 i rumori dello chateau rouge sono come morbidi.
Rumori molli.
Faticano ad uscire dalla foschia.
E da questo freddo.
Si incollano al nulla.
All’aria.
Non ti lasciano respirare.
Si incollano alle pietre delle case. Ed al pavé, che così non riesce ad asciugarsi.
Il pavé in questo budello stretto della rue poissonniers è sempre viscido.
La notte è viscido di alcool e vomito.
La mattina è viscido delle pompe ad acqua di propreté paris.
Il pomeriggio è viscido delle scorze e degli ortaggi che
le negre
rotonde
di queste parti
vendono

per la strada.

Come fossimo in africa.
Che vendono?
Cazzo non lo so.
E’ come una foto persa.
Ci puoi girare e rigirare intorno. Non la riavrai mai.
Perché il tempo non torna.
Dice: ma a Poissonniers ci torni quando ti pare e chiedi.
Si, risponde, ma non sarà più la stessa cosa.
Ed ora io vorrei avere parlato con una di queste uova nere che se ne stanno dal primo pomeriggio al freddobuio della notte a vendere.
Il bello è che vendono davanti agli occhi dei fruttivendoli.
Davanti agli occhi di chi ha un negozio.
Non si capisce neanche se facciano concorrenza.
Il negozio non ha gli stessi frutti loro?
Allora perché non li vendono al negozio?
Il sacco nero di plastica arrotolato davanti.
Un coltello per giocare.
Sembrano vecchie e bellissime e rotonde e grasse puttane in attesa dei clienti.
Ed invece vendono delle specie di melanzane nere.
Melanzane nere e basta.
Non hanno niente d’altro, se non le parole con cui empiono questo budello fino in cima. Fino ai tetti della rue poissonniers.
Tanto per farsi caldo.
Tanto per farci dimenticare Parigi.
E pensare che io non mi ricordo neanche dove sto dormendo.
Oddio. Pensare che non mi ricordo neanche dove sono.