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la galleria dei disastri

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inondazione
Che fosse l’estetica stessa della nostra civiltà, l’ha intuito da tempo Virilio.
Nella civiltà postmoderna l’incidente è arte.
Rappresenta la frattura della realtà.
La conseguenza estrema ed irrazionale della velocità.
Lo strappo.
Il pugno.
La visione.
L’interruzione del ciclo autistico della catena di visioni che ci intrappola.

C’è un che di sinistro nelle classifiche che sfilano tutti i giorni sulle pagine della rete.
In particolare in questa del Time, in cui le maggiori catastrofi ambientali sono inventariate come una specie di avanzatissimo prodotto della civiltà odierna.
Una conquista della civiltà neoprimitiva.

il ferro e il cemento di Roma [fine]

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Ma veniamo alla seconda premessa dell’articolo di Pennisi, che si riallaccia alla vecchia convinzione che il trasporto sotterraneo sia l’unica ed universale soluzione per la mobilità urbana.
L’idea, almeno a Roma, rimonta agli anni ’60, e fu alla base d’una manovra speculativa che assieme alla pianificazione delle Olimpiadi (siano esse invernali, estive, natatorie, terrestri o paraplegiche da sempre le Olimpiadi sono occasione in Italia di enormi manovre speculative) attaccò su tutti i fronti la rete tramviaria della Capitale, per realizzare un grandioso progetto di metropolitana che non ebbe mai luogo, dal momento che col tempo ci si rese conto di come nella Capitale l’escavazione fosse complicatissima, richiedendo non sono profondità fino a 30/40 metri, ma anche un continuo zigzag fra ruderi e falde acquifere.
Nel frattempo, però, si era già smantellato.
I 400km di linea di esercizio al 1929, già razionalizzati in 200km negli anni ’30 vennero quasi completamente eliminati in favore del trasporto su gomma.
Il risultato di questa scellerata politica del trasporto metropolitano fu la fine d’una delle reti tramviarie più lunghe ed efficienti d’Europa, che non solo collegava il magistralmente tutte le zone del centro urbano, ma che estendeva i suoi tentacoli anche i castelli romani.
Di quel capillare apparato circolatorio, fatto di depositi e scambi e grandi aree industriali, alla cittadinanza non resta praticamente nulla. Neanche i capannoni che, come è il caso di quello a pochi passi da p.zza Re di Roma – già appartenente alla rete STFER – invece di diventare come si è paventato per anni, la sede del mercato rionale dell’Alberone diventeranno a breve un grande centro commerciale sulla già congestionata via Appia Nuova.
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Oggi Roma ha solo sei linee tramviarie e tanti progetti per la metropolitana, mentre molte capitali europee, compresa la “metropolitanatissima” Parigi, vedono oggi nella rete tramviaria il futuro della mobilità.
Intanto perché tram e filobus sono più economici e rapidi da costruire di quanto non lo siano le linee metropolitane. Inoltre perché la loro costruzione è reversibile ed ha costi di manutenzione più bassi e rischi e variabili di gestione inferiori rispetto ad una rete sotterranea.
Al tram bisognerebbe tornare, cercando contemporaneamente di adottare misure di contenimento drastico del traffico, che non siano solo palliativi per sanare le casse del comune e dei privati (è il caso delle fasce blu introdotte dal sindaco Rutelli o delle ZTL).

Italia 2013 è un blog collettivo il cui intento sarebbe quello di “capire com’è cambiata l’area metropolitana di Roma in questi anni e cosa è successo in questo Paese”.
Fucina di idee ed invenzione in vista delle elezioni politiche a venire, nella gerenza la redazione composita del blog si dice « sorpresa che Mentre negli Usa la crisi abbia implicato un’uscita “a sinistra” (con tutte le differenze del caso), in Italia si viri verso destra. »
Non si aspettava, la redazione, che « a Roma tutto ciò si sia manifestato con grande forza » e con lei – proseguono – anche le « forze politiche e la sinistra italiana» sarebbero stati colti da stupore. « Il voto di Roma e quello nazionale […] sono due passaggi che vogliamo leggere assieme […] allo scopo di fornire i dati che servono per riflettere e ripartire. Perché ci ha colto di sorpresa? Nel caso di Roma perché si erano smarriti gli strumenti per comprendere la città metropolitana e i suoi spazi di vita e lavoro. Nel caso della politica la diagnosi è semplice: una miscela di autismo e sclerosi. »
Le responsabilità non sono astratte.
Autismo e sclerosi, certo.
Ma di una sinistra clientelare che a Roma, in quindici anni ha pesantemente contribuito a rendere la vita reale delle persone un inferno di smog e lamiere, tirato a lucido dall’ultimo concerto di Fiorella Mannoia, Ligabue e Lucio Dalla nelle grandi piazze delle Notti Bianche.
Panem et circenses.

Collegamento al sito di Vittorio Formigari sulla storia della rete tramviaria romana
Puntata di aggiornamento di Report sulla questione dei Re di Roma

il ferro e il cemento di Roma [parte I]

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Un recente articolo su Italia 2013 intitolato “Roma perde il treno” e firmato da Riccardo Pennisi, è simbolico per ricostruire certo ottuso atteggiamento della sinistra moderata italiana, convinta (Italia 2010) con ostinazione di star sempre dalla parte della ragione.
La tesi, esposta per punti elenco (mi sembra sia la cifra distintiva del blog), sarebbe che la famosa “Cura del Ferro”, annunciata da Walter Veltroni, stia subendo una drammatica battuta d’arresto sotto la giunta Alemanno.
Da quanto si evince dall’articolo di Pennisi sembrerebbe che il piano regolatore del 2008 – è bene ricordarlo, approvato dalla giunta Veltroni a porte chiuse – sia il meglio che Roma potesse meritare in termini di mobilità e razionalizzazione dello spazio urbano.
Naturalmente non è così, giacché il piano regolatore del 2008 e più in generale la gestione quindicennale della capitale da parte del centrosinistra, sono stati un veleno per una vita cittadina tutta riassumibile nella formula del “panem et circenses”.
Grandi eventi per le strade (strumenti anch’essi, peraltro, di spartizione delle prebende) e dietro le quinte la divisione dei pani e dei pesci, delle cariche, dei privilegi e del denaro.
Sotto la giunta Veltroni ha preso forma il progetto delle centralità per quello che s’è dimostrato essere nella realtà. Sulla carta idea necessaria, in quanto prevedeva la ridistribuzione del carico urbanistico amministrativo su più aree della periferia cittadina, creando centri autonomi di vivibilità.
Ma a colpi di varianti ed accordi di programma la verità è che in queste centralità s’è costruito troppo e senza regole, cosicché il calcestruzzo oltre che molto spesso orribile a vedersi è andato a gravare sul traffico dalla periferia al centro. Le centralità sono sorte riempiendo aree spesso vincolate ed i centri amministrativi ed i servizi sono rimasti dove stavano prima.
Secondo le stime, il piano approvato nel 2008 – proprio il giorno prima della candidatura di Veltroni alla segreteria nazionale del partito che oggi « merita rispetto » – prevede ben 70 milioni di metri cubi di edilizia residenziale in più in dieci anni.
Un carico insostenibile per la città, che proprio sotto le giunte di centrosinistra ha adottato la politica del laisser faire, che nella pratica si è tradotta in centri commerciali, palazzine e fiere; a dire, nella delega diretta della pianificazione urbanistica ai privati, e cioè ai vari Toti, Caltagirone, Cerroni, Bonifaci, Scarpellini, Ligresti, Parnasi, mediante l’applicazione di strumenti normativi straordinari riconvertiti ad uso ordinario, come l’accordo di programma.
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È il caso dell’area della Bufalotta dove i fratelli Toti e Gaetano Caltagirone hanno realizzato un intero quartiere privo di servizi, che oggi pesa come un macigno sulla mobilità della via Salaria e Nomentana. Le cifre sono spaventose: 2.750.000 metri cubi di case, 5.000 in più rispetto a quelle inizialmente previste.
Oppure è il caso del centro commerciale Roma Est, per il quale è stato costruito un intero svincolo autostradale quando gli abitanti delle zone limitrofe, del comune di Guidonia Montecelio e di Lunghezza attendevano da vent’anni (ed in realtà ancora attendono) una soluzione alla difficile mobilità dell’area Tiburtina.
E poi la nuova Fiera di Roma. 300 ettari per 3milioni di metri cubi alle porte di Roma, messa al posto di un’area prima destinata agli hub commerciali di un autoporto, il cui scopo era quello di impedire ai mezzi pesanti l’ingresso all’interno della cintura del GRA.
Basta leggere uno stralcio dell’intervista rilasciata nel 2008 a Paolo Mondani di Report, dal prof. Paolo Berdini, Docente di Urbanistica dell’università di Tor Vergata, per capire come e a vantaggio di chi sia cambiata la destinazione d’uso dell’area che si trova a fianco della Roma-Civitavecchia: « in questa zona […] arrivavano i tir e poi cambiavano le merci con i piccoli vettori verso la città di Roma. Da allora il destino dell’area è diventato travolgente; […] a cavallo delle due giunte, di Francesco Rutelli e di Walter Veltroni, attraverso accordi di programma, il gruppo Lamaro » ottiene dal comune « di fare qui la Fiera di Roma […] con una plusvalenza che lascio immaginare.»

In questo meccanismo perverso e criminale la metropolitana è stata una specie di moneta di scambio fra comune e palazzinari, come vengono chiamati a Roma, per cui ad esempio i costruttori della Bufalotta per un milione di metri cubi di residenziale in più offrono al comune di Roma 80 milioni di euro per la nuova metropolitana B1, che però si stima costerà alla collettività 600milioni di euro. Oppure Lamaro Appalti, che per la LUISS di viale Romania stanzia 8milioni di euro al Comune di Roma per non aver garantito gli standard di verde e servizi previsti per legge, incassando profitti forse dieci volte più alti.
E c’è il caso della centralità dell’Anagnina/Romanina: dai 750mila metri cubi previsti nel 2003, si è arrivati a colpi di condoni ed accordi col comune ad oltre 1milione, fino alla proposta finale del costruttore Scarpellini che con 50milioni di contributo alla costruzione della metropolitana, chiede di mettere su altri 670mila metri cubi di cemento in quella zona.
Leggiamo le conclusioni di Paolo Mondani: a « Scarpellini costruire a Romanina frutterà 420 milioni di euro di guadagno netto. Se il Comune gli consentirà di realizzare 670 mila metri cubi in più il netto salirà di altri 250 milioni. In cambio di questa fortuna Scarpellini promette solo 50 milioni di euro al Comune per realizzare il prolungamento della metropolitana da Anagnina a Romanina che costerà, dicono in tecnici, 350milioni e che se realizzata farà lievitare ancora il valore dell’area».
Eccola la “Cura del Ferro”.
Per mantenere lo squallido e demagogico parallelo medico Veltroniano è come se Roma fosse un grande corpo malato, le cui cure necessarie non vengano prescritte da un medico, ma da un informatore scientifico nell’interesse della ditta farmacologica che egli rappresenta.
I tracciati delle metropolitane vengono pianificati dai costruttori, i quali con un piccolo contributo realizzano plusavalenze da capogiro. Doppie addirittura, perché da una parte il valore dei nuovi immobili aumenta e dall’altra per via delle concessioni a cascata e degli aumenti dei volumi residenziali, viene lasciato poco o nessuno spazio all’edilizia senza profitti, quella civile.

Collegamento all’istruttivo servizio di report

Quattro oranghi a piazza Venezia

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oranghi a piazza Venezia per Greenpeace

oranghi a piazza Venezia per Greenpeace

oranghi a piazza Venezia per Greenpeace

Stamane alle 9 circa a piazza Venezia, la surreale visione di due oranghi arrampicati sui grandi pini marittimi dei Fori, mentre altri due se ne stanno stesi a sonnecchiare all’ombra della Colonna Traiana.
Mentre scrivo è probabile che gli oranghi siano ancora lì, in attesa della polizia che se li porterà via, potete contarci.
E non tanto per una questione zoologica, ma politica.
Già, perché gli scimmioni in questione stringevano striscioni e manifesti all’indirizzo niente di meno che di Silvio Berlusconi, per protestare contro la deforestazione indonesiana ed invitare l’onorevole presidente a presentarsi al vertice sul clima di Copenaghen, previsto per la prima metà di dicembre, e già in aria di triste naufragio.oranghi a piazza Venezia per Greenpeace
Un manifesto firmato Pongo Pygmeus, e stampigliato con il logo di Greenpeace espone la rilevanza della questione Indonesiana, la cui deforestazione è una delle catastrofi ambientali più serie del globo. L’isola dell’Oceania occupa infatti il terzo posto nella classifica mondiale delle emissioni di CO2, dopo Cina e Stati Uniti.
Come può un paese così piccolo inquinare quasi quanto i giganti industriali del pianeta?
oranghi a piazza Venezia per GreenpeaceCe lo spiegano gli oranghi, inquilini di una foresta vergine che sorge su un vasto strato di torba, nel quale sono intrappolati circa due miliardi di tonnellate di carbonio. Gli incendi e le ruspe che fanno spazio alle coltivazioni di palma, permettono così a questa immensa quantità di carbone fossile di sprigionarsi nell’atmosfera.
oranghi a piazza Venezia per GreenpeaceÈ una vera tragedia ambientale, che mette a rischio la salute del pianeta, la nostra, e nell’immediato quella degli oranghi e delle popolazioni locali.
Ma potrebbe essere arrestata con decisioni concrete e soprattutto col denaro: Greenpeace calcola che con 30 miliardi di euro l’anno le foreste del globo potranno essere finalmente messe in sicurezza.
oranghi a piazza Venezia per GreenpeaceIntanto i grossi oranghi sono così gentili da offrire al premier un biglietto ferroviario, per raggiungere la capitale danese.
Come a dire: basta solo un po’ di volontà.

Leggi qui il manifesto dell’iniziativa di Greenpeace

 

 

 

 

Il pianeta è minuscolo: Ilha das flores

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Aggiornamento!
Versione con sottotitoli in italiano:

L’isola dei Fiori from Aurelia on Vimeo.

È la storia dell’Isola dei fiori, bidonville all’estremo sud del Brasile, ma è anche un manuale di istruzioni per il pianeta terra e per la comprensione dell’essere umano che vi risiede, così ostinatamente appeso all’idea di sviluppo come crescita.
Se un alieno dovesse entrare in contatto con la nostra razza, gliene consiglierei caldamente la visione, in quanto potrebbe rapidamente renderlo edotto circa la natura contorta dell’essere chiamato uomo.
Il corto di Jorge Furtando, realizzato nel 1989, gioca sulla proporzione e sul cambiamento di scala, oltre che sulla digressione continua fra micro e macroscopico.
Si inizia seguendo il cammino di un pomodoro coltivato dal signor Suzuki, e si aprono subito una serie di parentesi “didattiche” in cui ci viene spiegato cosa è un pomodoro, cosa è un giapponese, cosa è il cervello… e via via per tornare a seguire il viaggio del pomodoro dalla pianta, al mercato, alla casa di una famiglia, alla spazzatura, ai maiali, alla sotto-umanità. Tutto prodotto dalla “letale” combinazione di pollice opponibile e cerebro sviluppato.
Furtado costruisce così un percorso per accumulazione, in cui le informazioni – nella loro presentazione semplice, basica, ispirata dal linguaggio didattico d’un documentario per la scuola – si rivelano non proprio scontate, ed anzi, ricche di un significato nuovo e potente quanto semplice e disilluso.
La sensibilità di questo fanciullesco punto di vista sulle cose del mondo, prende tinte quasi surreali. I paradossi del sistema monetario e della delocalizzazione emergono infine, quasi come un’illuminazione nel racconto per extraterrestri cui lo spettatore è guidato dal regista passo per passo, mano nella mano.

Un corso concentrato su delocalizzazione e contemporaneità, che procede per accumulazioni poetiche compiendosi in una sintassi descrittiva possente.
Sintassi poetica del nostro pianeta, e mi dispiaccio solo di non averlo trovato per voi in lingua italiana (in alto è in francese, qui sotto in english).

Scheda del corto su imdb
Isla das flores in inglese

Terre Natale – Ailleurs commence ici. Topografia dell’altrove.

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 Terre Natale - Ailleurs commence ici. Topografia dell’altrove.

Paul Virilio non è nuovo dell’ambiente. Anzi, è di casa.
Per la Fondation Cartier pour l’art contemporain aveva già pensato una mostra cruciale, Accidens, che sviluppava il tema dell’incidente come forma d’arte nelle civiltà della velocità, dell’ipertecnologia, del dominio mediatico.
In questi giorni Paul Virilio è ancora lì che passeggia e parla, passage d’Enfer, un budello ad appena qualche metro dalla sede della fondazione, stesso marciapiede, davanti al cimitero di Montparnasse. Tutto il giorno Paul Virilio cammina e parla e percorre il passage: ma è una luminescenza in proiezione perpetua al piano “Sous-Sol” della mostra organizzata stavolta con Raymond Depardon, fotografo e documentarista francese fra i più celebrati. Doppio titolo (o titolo e sottotitolo) per il duplice percorso che durerà fino al 15 marzo: “Terre natale – Ailleurs commence ici”.Terre Natale - Ailleurs commence ici. Topografia dell’altrove.
I temi sono quelli cari ai due organizzatori, che pur con le loro specifiche sensibilità, si fanno eco l’un l’altro in simmetria quasi perfetta. Al centro v’è l’idea di terra natale, polverizzata dalla globalizzazione, sia per gli occidentali – costretti per la prima volta a confrontarsi con la perdita di identità e tradizioni e col mondo rimpicciolito a colpi di comunicazione e supervelocità – sia per i “figli di un dio minore” che vedono progressivamente scomparire il loro spazio vitale, e i loro ecosistemi farsi sempre più piccoli.


La terra non basta! La terra brucia!

Per entrambi la terra sembra più piccola di prima. Ma si inizia con chi la terra e l’identità se le vede rubare. Sull’imponente maxischermo della grande sala, gira a loop “Donner la parole”, sequenza di ritratti girati in alta definizione, pillole linguistiche introdotte da giganteschi titoli rossi che segnalano il luogo e la lingua del parlante. Poi il breve monologo.
Sentiamo parlare in Kawésqar (Cile), Chipaya (Bolivia), Quechua (Bolivia), Mapuche (Cile), Afar (Etiopia), Occitano (Fancia), Bretone (Francia), Guarani (Brasile) e Yanomami (Brasile). Una sequenza di dettagli di volti parlanti che ammoniscono la civiltà di massa. Divinità primitive, elementari, pure, schiaccianti. Le dimensioni della proiezione ed il dettaglio del digitale a donare forza simbolica alle immagini.
Si prosegue con quelli a cui la terra non basta. Il limite della crescita infinita è solo la terra, che già progettiamo di abbandonare. Pianeta usa-e-getta, piccolissimo, minuscolo: il nuovo nomadismo ipertecnologico ci fa stare sempre a casa, il movimento è sempre più svincolato dalla proporzione geografica. Il mondo è un granello di sabbia.
Per la secondai installazione Raymond Depardon ha fatto il giro del mondo in 14 giorni, riproducendo una delocalizzazione paradossale per rapidità e simmetria degli scenari. Solo con la sua camera tascabile ha toccato Washington, Los Angeles, Honolulu, Tokyo, Hồ Chí Minh (già Saigon), Singapore, Città del Capo.
I video, divisi in giorni, sono proiettati su due schermi messi ad angolo. Riprese a camera fissa che osservano attonite lo scorrere delle auto, o la vita nelle strade commerciali. Da più punti di vista, in sincrono, fuori sincrono. Le città occidentali si replicano l’una nell’altra e finiscono con l’assomigliarsi tutte.


Altrove comincia qui.
E veniamo (torniamo) a Paul Virilio che cammina nel passage d’Enfer.
Il suo monologo ci introduce alle video-installazioni progettate da Diller Scofidio + Renfro.
Si parte da un dato di fatto: nei prossimi 40 anni duecento milioni di persone saranno costrette a migrare. È il più grande esodo a memoria d’uomo. Ed è già in corso.
Terre Natale - Ailleurs commence ici. Topografia dell’altrove.Vale la pena di riconsiderare, dice Virilio, le nostre immagini di sedentario e nomade. L’occidente ha inventato una nuova forma di sedentarismo in movimento, dove non esiste “altrove” pur in una prospettiva geografica virtualmente infinita, liquida e priva di frontiere. Il nomade è invece quello che è sempre da nessuna parte, cittadino di niente, nelle metropoli occidentali o nelle nuove megalopoli sottosviluppate.
Lo spazio geografico e politico come è stato inteso fino ad oggi, sparisce: la cittadinanza occidentale si espande e scontra con la finitezza del pianeta terra.
Il fenomeno è illustrato da una quarantina di monitor sospesi, che collaborano o si alternano nella proiezione di scene di migrazione registrate dai telegiornali: è l’attualità irriconoscibile delle scene di migrazione. Ma saremmo capaci di dire quali migrazioni? Identificare luoghi e scenari politici?
La seconda parte delle videoinstallazioni si caratterizza invece per il concept mediatico quasi invasivo. Su un maxischermo a 360° sono proiettati dati statistici, espressi con animazioni in grafica 3d di altissimo impatto visuale.
Temi affrontati: “popolazione e migrazioni urbane”, dove si espongono i dati della concentrazione urbana planetaria. Ricordiamo soprattutto che il 2007 è stato l’anno del sorpasso: quello in cui per la prima volta nella storia, la popolazione urbana ha superato, su scala planetaria, quella rurale. Cosicché oggi il 51% degli esseri umani vive in città.
In “Flussi di uomini e denaro” si mostrano le quantità di denaro spostate dai risparmiatori emigrati: le somme di quella economia informale creata da chi lavora in occidente ed invia sostegni alla famiglia d’origine. Come in un perfido contrappasso o gioco di vasi comunicanti, i proventi delle usurpazioni del “primo mondo” sul terzo mondo fanno il loro viaggio di andata-ritorno. E viceversa.
Segue una rappresentazione in tre dimensioni ed in scala temporale delle “migrazioni forzate e politiche”: uomini come sciami di pixel in movimento fra Rwanda, Arabia Saudita, Kosovo, Regno Unito, Messico, Stati Uniti, Russia. Qui alle andate seguono solo raramente i ritorni, ed i trasferimenti di massa descrivono lacci intercontinentali fra mondonord e mondosud. Stessa rappresentazione grafica anche per le migrazioni passate, presenti e future, legate agli squilibri climatici ed alle catastrofi naturali. Cifre impressionanti, già triple rispetto alle masse in movimento per lo stesso motivo alla fine degli anni ’90.
Infine “Mari che salgono, città che scompaiono” proietta il livello del mare da qui al 2100: i nomi delle città si dispongono su un mappamondo virtuale e poi si espandono sull’orizzontale dello schermo a 360°. La scala temporale indica lo scorrere del tempo e le città migrano sopra e sotto l’equatore del limite di sommersione.
Per noi a dir poco amara la sparizione del litorale laziale e dell’Italia tutta (o quasi).
Fine. O meglio inizio. Perché le immagini di Terre Natale sono un terreno di coltura ideale per le cellule celebrali; incidono la mente e lasciano un solco profondo atto ad ospitare fertilissimi pensieri di scienza politica, anche a chi non mastica la materia.
Solo una cosa ci sentiremmo di imputare al duo Virilio – Depardon, e cioè la sparizione del local nella loro analisi del global. Sembra un ritornello, ma è efficace per dire che nella loro analisi non v’è quasi traccia delle migrazioni che travolgono l’Europa. È un effetto, forse, di quella tara alla centralizzazione, croce e delizia della Francia. Per cui, poco spazio alla disperazione del mediterraneo ed un occhio sugli “altrove” più prossimi alla Francia o agli Stati Uniti, per storia, indoli o colonialismi.
Ma non proprio per prossimità geografica.

l’ambiente? una sfida industriale (fine)

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copyright rk22.com - ambiente, sfida industriale

La tecnologia è conoscenza conseguenziale. Quindi consecutiva. Quindi assoluta ed unidirezionale.
La tecnologia non si sazia: essa pone domande sempre nuove alla conoscenza scientifica che la serve. Ma è solo un’illusione pensare che tali domande esistano a priori, perché esse sono generate dal processo stesso di avanzamento del Logos.
Con il sapere scientifico e la tecnologia ci saranno sempre domande. Ed ogni risposta sarà funzionale alla formazione del sistema e alle domande che costituiscono la base della scoperta di nuovi principi di SOSTEGNO.

Quale sarebbe allora la soluzione tecnologica per l’ambiente?
Reversibilità ed annullamento dell’impatto sul clima.
Ogni emissione reversibile e riassorbibile. Più la tecnologia sarà reversibile, più essa diventerà irrinunciabile ed invisibile.
Più la tecnologia sarà invisibile più essa inciderà nella Kultur, nella formazione spirituale dell’uomo, convertito in macchina cui sia necessario il sostegno.
Ma l’uomo non era di per sé sostenibile, prima dell’era industriale?

Immaginiamo per un istante un mondo in cui ogni mezzo tecnologico possa essere impiegato senza danneggiare l’ambiente. L’impatto ambientale pari a zero, la tecnologia avrebbe un effetto concreto e totale solo sulle nostre coscienze, annullando ogni limite alla sua applicazione in ogni area ed attività umana.
Una tecnologia completamente solidale con “l’environnement” ne è il superamento e rappresenta la rinuncia totale alla dipendenza dall’ecosistema.

In un mondo a fusione fredda, ove l’energia sia pressoché inesauribile chi si preoccuperebbe del suo uso?
In un mondo dalle risorse perpetuamente rinnovabili chi si preoccuperebbe dello spreco?

In un mondo in cui la biotecnologia possa essere una risposta affidabile alla lotta contro la fame e con modalità del tutto ecocompatibili sarà ancora possibile porre una questione etica su senso e i modi del consumo?
Esisterebbe ancora, in questo mondo futuribile, il senso di vulnerabilità dell’uomo rispetto all’assoluto?
Non è forse questa nuova sfida tecnologica l’ennesimo tentativo di sostituire il Logos ad ogni aspetto della vita dell’individuo?

Sogniamo assieme questo mondo e vediamo che in esso non esistono più limiti all’operato della tecnologia: se l’inquinamento ed il danneggiamento diretto dell’ecosistema sono oggi freni potenti per la crescita e lo sviluppo, dove vorranno arrivare, infine, una crescita ed uno sviluppo ad impatto ambientale zero?

Far considerare l’ambiente come una sfida industriale è un astuto depistaggio della domanda più importante: se sia cioé lecito fare della velocità e della delocalizzazione le chiavi di volta della civiltà del futuro.

Se un’autovettura viaggiando alla velocità di 280 km/h consuma troppo dobbiamo chiederci come ridurne i consumi con complessi apparati meccanici, oppure dobbiamo interrogarci sulla effettiva necessità di viaggiare da Roma a Milano in due ore?
La domanda è tutta qui.
Questo sistema globale che vive all’istante e che non sa più misurarsi con la sua memoria analogica, complessa, multidirezionale, associativa, rappresenta davvero un avanzamento rispetto al passato?
Cosa ci impedisce di pensare che le società della lentezza, in cui fini e scopi dell’essere umano sono legati a ritmi stagionali ed in cui i sistemi di valori tradizionali sono finalizzati in sé allo sviluppo organico con la natura, abbiano un valore aggiunto rispetto alla fatuità dei nostri consumi?
La crescita individuale ritardata che oggi l’individuo esperisce nelle nostre società si deve in larga parte alla specializzazione dei saperi per i quali è necessario un maggiore periodo di apprendistato.
Ma il sapere specifico non è sapienza, che al contrario è sapere universale.
Ciò significa che il ritardo dello sviluppo individuale, nella formazione della famiglia, ad esempio, è strumentale alla tecnologia, non all’uomo, che “au contraire” perde sempre di più le proprie conoscenze per sostituirle con nozioni che servono ad esaudire precisi scopi e direzioni tecnologiche ed ad inserirlo nella società come funzione e tassello di una macchina produttiva.
Le civiltà del passato davano maggiore valore alla sapienza, che si componeva innanzi tutto di un sistema etico, volto alla conservazione della specie in senso naturale, davvero ecocompatibile.
Era questo il ruolo della memoria analogica e della formazione etica e sociale.

A Belleville per la strada qualcuno ha scritto “on ne peut pas tomber amoureux d’un taux de croissance”: il pericolo primario delle nuove ideologie del progresso non è la possibilità di distruggere o meno l’ecosistema, perché – lo abbiamo visto – tale questione è fortemente relativa da un punto di vista non antropocentrico (e cioé da un punto di vista puramente biologico) e soprattutto perché la tecnologia sarà in grado di risolvere ogni sfida ambientale se in essa si dovrà decidere della propria autonomia e sopravvivenza.
Il pericolo primario del mondo che ci stiamo costruendo intorno è la deformazione della coscienza e l’abbandono degli antichi sistemi etici, per una esistenza tutta declinata al futuro ed alla velocità.
Bisogna chiedersi se valga davero la pena di costruire i mezzi adeguati al mantenimento di un modo che vuole rinunciare completamente all’ecosistema ed all’etica del risparmio ad esso connessa, per consentire lo sviluppo di una nuova natura ibrida, mezza uomo e mezza macchina, in cui anche il pensiero sia conforme alla rapidità ed alle ambizioni della logica, capace di abbandonare il pianeta, ed essere così ovunque per scoprire di non essere da nessuna parte.
Di non essere più uomo.