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Calder al Palazzo delle Esposizioni. Il moto del cosmo.

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Ugo Mulas. Alexander Calder con Snow Flurry, Saché 1963

Ugo Mulas. Alexander Calder con Snow Flurry, Saché 1963

Oggi meno nominato di altri artisti dell’avanguardia storica, Alexander Calder è tuttavia un autentico gigante dell’arte contemporanea, cui si deve l’apertura della scultura al movimento, in quella che potremmo considerare come una declinazione in chiave “cosmologica” del realismo.
Lo si potrà verificare fino al 14 febbraio a Roma, al Palazzo delle Esposizioni, che ne ripercorre l’attività con una mostra che riunisce oltre 150 pezzi fra tele e sculture, completata dalla proiezione di alcuni rari film legati al percorso artistico di Calder e da un interessante appendice fotografico in due sale, dedicato agli scatti di Ugo Mulas, che negli anni ’60 conobbe Calder a Spoleto e ne documentò la tarda attività del grande capannone-studio di Saché, in Francia.
La retrospettiva, rigorosamente cronologica, muove dal primo contatto con l’arte – cui Calder approda abbandonando la professione di ingegnere, per abbracciare un linguaggio circense “delle attrazioni” sviluppato già dalla tenera età – fino alle sculture giganti della tarda attività.
È un percorso compatto, caratterizzato da una grande abilità tecnica (e tecnologica) e da una straordinaria coerenza estetica: Calder si esprime infatti per forme ricorrenti, eppure sempre cangianti, costruendo sculture-macchine ad imitazione dell’infinita replicazione di atomi e particelle e dell’eterna mutazione della materia.
Una sorta di ricerca cosmologica, dicevamo, a stimolare la costruzione dei tenui e delicati equilibri dei “mobile” (la definizione fu coniata nientemeno che da Marchel Duchamp) cui Calder dedicò tutta la sua carriera artistica.
Si tratta di sculture costruite sul principio del cambiamento: strutture penzolanti composte da bilancieri in ferro agganciati l’uno all’altro e dai quali pendono sottili lamine di metallo laccato. Ne risultano una serie di strutture mobili, appunto, dove la materia si declina in serie imprevedibili ed infinite di forme astratte, fatte dall’interazione fra masse, gravità e “environnement”.
Labili e variabili a seconda delle turbolenze dell’aria e dei fattori ambientali più disparati, queste sculture acquistano così una sensibilità all’ambiente, reagiscono al passaggio del visitatore, verificano gravità ed equilibrio, simulano l’espansione perpetua del cosmo, descrivono galassie e sistemi stellari insoliti e poetici, sognano dell’esistenza del moto perpetuo.
Ugo Mulas. Alexander Calder, Saché, 1963.

Ugo Mulas. Alexander Calder, Saché, 1963.

È come se l’arte astratta di Joan Mirò e Vasilij Kandinskij – le loro esplosioni di geometrie e colori – diventassero improvvisamente degli oggetti. Se negli anni ’30 il gruppo surrealista esplorava l’impatto delle macchine celibi sulla sensibilità, Calder sembrerebbe rispondere nella stessa epoca con delle “macchine a vento” tutt’altro che celibi, ed anzi “dialoganti”, in un’apertura dell’opera al mondo che per certi versi anticipava il gioco delle interazioni delle nuove avanguardie con lo spazio urbano e museale.
Laddove infatti le sculture ed i ready made surrealisti assumono toni foschi e perturbanti, ottenuti mediante un mutismo enigmatico, le opere di Calder respirano il cosmo, ne captano moto e particelle, riallacciando un contatto “descrittivo” con la realtà.
Il discorso di Calder sul reale assume anche maggiore coerenza se guardiamo ad altri momenti della sua produzione, parimenti presenti nella mostra di Roma: quello più precoce, risalente al periodo del “Cirque Calder”, quando cioè l’artista allestiva mini-spettacoli impiegando macchine e pupazzi in fil di ferro; e quello più tardo in cui i “mobile” lasciavano il posto ai loro antagonisti, gli “stabile” (stavolta la definizione fu di Jean Arp), grandi escrescenze ferrose che dalla terra si innalzano verso l’alto, creando angoli, curve ed anse a riconfigurare lo spazio circostante.
È proprio i questi segmenti cronologici che scopriamo l’ossessione calderina per lo studio delle forme, in particolare nella prima fase, in cui la tendenza descrittiva di cui dicevamo si esprime nei tratti sintetici delle delle “wire sculture”, intrecci poetici di filo di ferro che compongono figurini d’uomini ed animali.
Completa ed appassionante, la retrospettiva romana su Alexander Calder offre l’opportunità di riscoprire questo grande artista del Novecento e, di fatto, parte della genesi della rimodulazione in chiave interattiva ed urbana dell’arte contemporanea.

Dada e surrealismo al Museo del Vittoriano

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surrealismo

E’ stata inaugurata oggi a Roma la mostra “Dada e Surrealismo riscoperti”, che occuperà gli spazi del Museo del Vittoriano fino al 7 febbraio 2010.

Il percorso espositivo ripercorre cronologicamente lo sviluppo dei due movimenti, da una parte sorvegliando le singole estetiche dei protagonisti, e dall’altra organizzando le opere seguendo il criterio storico del raggruppamento per esposizioni dell’epoca. Si parte dagli immancabili cadaveri squisiti, frutto di un procedimento non diverso dalla scrittura automatica, consistente nel piegare la tela ed affidare la pittura delle facciate a diversi artisti inconsapevoli del contenuto del resto della tela. Il percorso prosegue con le opere esposte alla collettiva “germinale” del 14 novembre del 1925, per proseguire con l’antologica di Londra dell’11 giugno 1936, ed arrivare all’inaspettata rinascita del Surrealismo nel dopoguerra, ribadita all’epoca da un altro evento antologico nel ’47, sempre a Parigi.

La chiusura del percorso – pensato da Arturo Schwartz e di qualità didattica ma mai didascalico – è affidata agli ultimi strascichi del surrealismo, ovvero alle tre ultime mostre dirette nel ’59, nel ’60 e nel ’65 dagli stessi fondatori del movimento. E v’è qui la dimostrazione che Dada e Surrealismo sono essenze o stili – non già movimenti estemporanei – che hanno accompagnato tutta la storia dell’arte da Bosch a Jarry, dalle pitture rupestri a Gauguin.

Ma tanto per restare sul piano delle qualità intrinseche dell’allestimento, ecco un dato secco: ben cinquecento le opere che contribuiscono allo snodarsi di questo sorprendente percorso alle radici stesse della contemporaneità. E cinquecento opere tutte assieme e mediamente tutte di alto valore storico, quasi saturano l’attenzione del visitatore, che si trova a percorrere le stanze di quello che sembra un vero atelier d’artista, i quadri vicini in quieto disordine, come improvvise illuminazioni.

Del resto che cosa sono il personaggio, lo scenario, l’ambiente surrealisti se non il livido (a volte luminoso) sogno dell’artista nel suo atelier?

Si potrebbe leggere in modo meta-artistico, anzi, l’esperienza del surrealismo, che nel rapido Dada trova le premesse della frattura, ma che si stende poi su pose ed oggetti muti ed enigmatici, al di sopra ed al di là della realtà perché nell’al-di-là dei sogni. Gli oggetti d’atelier, gli ingranaggi della creazione, occupano le notti dell’artista totale, il quale così della vita fa arte e delle cose ready made.

Ed è forse per via di questi sogni d’artista che le opere di Bréton, Duchamp e compagni, sembrano i prodotti di un atelier abbandonato in tutta fretta (G. De Chirico, Bagno misterioso, 1934), o le macchine celibi di una officina impazzita, i cui ingranaggi hanno smesso di produrre biciclette, confondendole con sgabelli e dando vita a tumori tecnologici (M. Duchamp, Roue de bicyclette, 1913).

La razionalità s’ingolfa nelle ascensioni visionarie di questo gruppo di sfollati dall’inconscio e si perde talvolta in voli pindarici nei sogni: è il caso de Le Château des Pyrenées (R. Magritte, 1959) o di Donna avvolta dal volo di un uccello, (J. Mirò, 1941).

Se l’assunto di base di Dada e Surrealismo è in qualche modo lo stesso – quel «no» alle cose del mondo, assunto a vangelo stesso del fare artistico, elementare poesia del contrario – la discontinuità dei due movimenti resta evidente in una specie di quoziente di pericolosità e danno (M. Ray, Cadeau, 1921), onnipresente nel dadaismo ed invece attenuato nelle digressioni più puramente surrealiste.

Se il surrealismo è sogno, coerente nella sua assurdità, Dada sembra l’effetto allucinatorio dell’acido lisergico, deflagrazione che per la sua rapidità rivendica occasionalmente la vicinanza col Futurismo (Farfa, Ritratto geografico di Marinetti, 1925).

Dada è un esplosione, è il linguaggio di chi è affetto da una degenerazione cerebrale cronica, una psicanalisi “en plein air” in cui l’oggetto, decontestualizzato, tradito e vilipeso nelle sue funzioni elementari (M. Duchamp, Porte-bouteilles, 1914 oppure Fontaine, 1917), diventa linguaggio, cambiando di contenuto pur mantenendo intatta la propria forma.

È alla solidità del meccanismo della sorpresa che si affidano i due movimenti (in questo non è sbagliato accusare gli organizzatori della mostra d’una certa superficialità nella traduzione delle didascalie, che non sempre rendono i giochi linguistici alla base della struttura semantica dell’opera, quasi sempre “integrata” alla didascalia), la stessa solidità che caratterizza pressoché tutta la storia dell’arte più recente, da quella concettuale alla post-avanguardia, dal pop alla neoavanguardia, (le rare e lucide eccezioni si trovano ad esempio nel nero “impressionista” e romantico di Rothko).

Nel collage e nel gusto per l’assemblaggio, per il significato, insomma, che scaturisce dall’abbinamento forzato delle cose (H. Bellmer, La bambola, 1938) sta la forza linguistica di queste avanguardie, che intuiscono i valori fondamentali e le regole della comunicazione d’oggi.

La pure ristretta produzione filmica dei surrealisti ha un ruolo chiave nella storia del cinema. Della settima arte, Duchamp, Picabia e gli altri sfruttano il potere affabulatore e vi realizzano così il sogno della significazione allusiva ed “aperta” , della realizzazione d’una realtà altra e mistificata. Nel cinema rêverie e macchine celibi, si fanno viventi (F. Léger, Ballet mécanique ; F. Pacabia l’Entr’acte, entrambi del 1924). Così, l’arte surrealista e dadaista sembra vivere già nel nostro presente: colleziona atti di sovversione del linguaggio, ma nell’interesse per il linguaggio trova anche l’alfabeto essenziale della pubblicità e della comunicazione computazionale dei nostri giorni.

La formazione inquietante, irrazionalista, di quegli antichi e misteriosi “cadavre exquis”, è ripetuta oggi nelle luminescenze televisive che ne copiano trucchi e impatto emotivo, ma con tutt’altra allure rivoluzionaria.

http://www.c6.tv/archivio?id=6300&task=view