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Luci ed ombre di un’educazione siberiana
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Educazione siberiana è l’appellativo che le popolazioni della Transnistria davano agli Urca.
È difficile, forse impossibile, mettere a fuoco la situazione “etnica” di questa regione secessionista ad est della Moldavia, autoproclamatasi indipendente nel 1990, ma riconosciuta solo da due altrettanto enigmatiche nazioni, l’Ossezia del Sud e l’Abkhazia.
“Educazione siberiana” è il titolo del libro d’esordio del piccolo caso editoriale di Einaudi, Nicolai Lilin, classe 1980, emigrato in Italia dopo la difficile esistenza nelle macerie dell’Unione Sovietica.
Dunque un bildungsroman scritto dal pugno d’uno di questi Urca, popolazione siberiana che sarebbe stata deportata in Moldavia da Stalin negli anni ‘30, almeno stando a quanto racconta l’autore, giacché sembra impossibile trovare qualche più preciso riscontro storico.
Nel libro Lilin racconta l’infanzia vissuta a Fiume Basso, quartiere roccaforte dei siberiani nella remota cittadina di Bender, che lì sopravvissero secondo i principi dell’onestà criminale, prima della definitiva scomparsa sotto i colpi della globalizzazione. Ed è appunto questa ossimorica “onestà criminale” a fare l’attrattiva maggiore della storia di Lilin.
Gli Urca, infatti, sarebbero stati una sorta di mafia, che come le cosche di casa (o Cosa) nostra, si fondava su di un rigido codice morale d’armi, tatuaggi, assassinii e rapine, abbinati però al necessario “contrappeso antropologico” del rispetto degli anziani, dell’adorazione delle icone, dei valori religiosi e, insomma, della sacralità delle gerarchie tradizionali che ben conosciamo qui in Italia, paese di santi, poeti, vecchi e camorristi.
Da qui tutto un corollario di dettami in cui l’omicidio è concepito come sola via di riscatto virile, a patto di rispettare il codice criminale, unico in grado di segnare il discrimine fra teppismo e “onestà” delinquente.
Eccoli allora Nicolai e l’amico Mel, violenti ragazzi della via Pal, alle prese con un messaggio da consegnare, con gli attacchi ai danni dei criminali meno onesti di loro e con le rappresaglie su chi non rispetta come loro i menomati ed i reietti.
La narrazione si basa più sugli sbilanciamenti stilistici che sulla ricerca di un equilibrio aureo: i capitoli si espandono e contraggono, il racconto procede per accumulazioni e nomenclature, con gusto “slavo” per la parentesi e la ramificazione delle storie personali, che continuamente distraggono dal corso principale degli eventi.
Il linguaggio elementare, quasi sgrammaticato, piano, semplice, basico, sembra sia la conseguenza del fatto che Lilin – di madrelingua russa – scriva direttamente in italiano: ma al rapido confronto con le lettere aperte dell’autore e con il lessico “migrante” delle video-interviste, è facile riconoscere in questa scrittura uno stile essenziale costruito ad arte dallo staff letterario di Einaudi.
Ai motivi di interesse, tutti rintracciabili nella morale delinquenziale come reazione armata al sistema, che, – con vertiginoso cambio di contesto – potrebbe anche essere istruttiva per il nostro occidente, dove la resistenza umana ha ceduto il passo alle afflizioni spirituali e dove la classe ’80 ha speso l’infanzia fra Atari e Commodore 64, si aggiungono però molteplici demeriti.
Intanto uno tutto interno alla storia: la “promessa” del prologo mai mantenuta; ci si aspetterebbe infatti l’arrivo alle vicende cecene, ma evidentemente le 342 pagine del libro non bastavano (sarà necessario un sequel, vista anche la tiratura raggiunta?). V’è poi l’esagerata differenza di esiti fra un capitolo e l’altro, tanto che il libro appassiona e stanca in pari quantità. Le punte di poesia, passione e violenza raggiunte nelle storie di tatuaggi (Lilin è anche tatuatore tradizionale Urca) o in quella del “macchinista” Boris o ancora nella cruda realtà del carcere minorile, sono compensate dalle esagerate e noiose digressioni degli “otto triangoli” o del “giorno del compleanno”.
Come esempio di “letteratura migrante” il caso Lilin è unico in Italia, ed anticipa un fenomeno che certamente si farà sempre più rilevante, se è vero che il nostro paese si incammina verso scenari sociali simili alla Francia o alla Germania. Ma, lo si sarà capito, l’ombra che grava su questo sul giovane Lilin è che sia un’operazione ben architettata di marketing editoriale. Il che non è necessariamente una colpa, ma il talento dello scrittore deve essere innanzi tutto nello scrivere.