Visto che l’articolo era lungo e visto che ieri, in occasione della giornata rossa contro l’AIDS nessuno ne ha parlato, credo che sia il momento giusto per rilanciare qui Duesberg, e ricapitolare in qualche punto perché bisogna diffidare della teoria AIDS / HIV.
1. L’AIDS come malattia esiste, non è questo che si nega bensì la relazione fra la sindrome e l’HIV;
2. I test anti-HIV non provano la presenza del virus nell’organismo, ma (a) o ne identificano alcune sequenze genetiche nelle cellule del presunto ospite, (b) oppure cercano gli antigeni nel sangue. Chi si immagina che la sieropositività sia verificata con la vista “corpuscolare” dell’HIV si sbaglia: il virus non viene isolato in nessun test.
Inoltre la positività al test inducendo nel paziente uno stato di ansia e terrore potrebbe essere una delle cause del deficit immunitario. Per questo l’associazione “Alive and well” SCONSIGLIA di fare il test HIV. Insomma, non date retta a Mastrandrea;
3. L’AIDS, se fosse un’infezione dovuta ad un microorganismo, dovrebbe rispettare i postulati di Koch, che invece non rispetta;
4. La sieropositività è trattata con un farmaco chemioterapico, l’AZT, che sembra abbia effetti letali proprio sul sistema immunitario;. Una recente proposta delle case farmaceutiche vorrebbe impiegare l’AZT anche per il trattamento della cosiddetta sindrome dello yuppie;
5. A differenza delle malattie contagiose e dovute a microorganismi l’AIDS colpisce specifiche fasce della popolazione. Esistono inoltre tre tipi diversi di AIDS, strettamente legati alla geografia: si parla di AIDS africana, occidentale, asiatica.
6. Una relazione fra HIV e AIDS è indimostrabile. L’HIV potrebbe essere solo un microorganismo parassita, indirettamente legato alle immunodeficienze.
Secondo Duesberg ed altri illustri immunologi, virologi e genetisti, l’AIDS sarebbe legata a fattori ambientali, in particolare all’esposizioni ad agenti chimici, come alcune droghe e l’inquinamento.
L’immunodeficienza è inoltre legata agli stili di vita, allo stress, all’inquinamento.
Era così per i primi gruppi in cui venne diagnosticata (omosessuali di san francisco esposti al consumo di stimolanti e ad una vita sessuale particolarmente intensa) e continua ad essere così per una malattia il cui agente patogeno sembra “discriminante”, colpisce cioé solo determinate fasce della popolazione.
L’ipotesi Duesberg non passa alla radio ed alla TV perché è molto più facile e compatibile col sistema prendersela con un microorganismo altro da sé che con gli stili di vita, cui sempre di meno riusciamo a rinunciare.
L’edonismo delle nostre civiltà occidentali, la denutrizione dei paesi del terzo mondo, l’inquinamento, l’esposizione ad agenti chimici, lo stress da lavoro; sono questi gli squilibri che provocano l’AIDS.
Ma la vendita dell’AZT è un business ghiotto, ghiottissimo, per i grandi Trust farmaceutici.E ieri, con la celebrazione del rito collettivo della grande giornata rossa dell’AIDS, abbiamo visto come le televisioni includano nel pacchetto pubblicità anche lo spazio telegiornalistico. Nessuna citazione della questione Peter Duesberg né di Kary Banks Mullis (nobel per la chimica).
S’è preferito parlare delle soubrette e delle cantanti che si vestono di rosso e fanno solidarietà in giro per il mondo.
Ma intanto nessuno s’è chiesto: perché abbiamo una giornata dell’AIDS, malattia che totalizza 2milioni di morti l’anno, ma non esiste una giornata contro la diarrea che di morti ne produce altrettanti, o, peggio, contro la fame nel mondo, che si calcola sia il principale agente patogeno del pianeta?
Stamane alle 9 circa a piazza Venezia, la surreale visione di due oranghi arrampicati sui grandi pini marittimi dei Fori, mentre altri due se ne stanno stesi a sonnecchiare all’ombra della Colonna Traiana.
Mentre scrivo è probabile che gli oranghi siano ancora lì, in attesa della polizia che se li porterà via, potete contarci.
E non tanto per una questione zoologica, ma politica.
Già, perché gli scimmioni in questione stringevano striscioni e manifesti all’indirizzo niente di meno che di Silvio Berlusconi, per protestare contro la deforestazione indonesiana ed invitare l’onorevole presidente a presentarsi al vertice sul clima di Copenaghen, previsto per la prima metà di dicembre, e già in aria di triste naufragio.
Un manifesto firmato Pongo Pygmeus, e stampigliato con il logo di Greenpeace espone la rilevanza della questione Indonesiana, la cui deforestazione è una delle catastrofi ambientali più serie del globo. L’isola dell’Oceania occupa infatti il terzo posto nella classifica mondiale delle emissioni di CO2, dopo Cina e Stati Uniti.
Come può un paese così piccolo inquinare quasi quanto i giganti industriali del pianeta? Ce lo spiegano gli oranghi, inquilini di una foresta vergine che sorge su un vasto strato di torba, nel quale sono intrappolati circa due miliardi di tonnellate di carbonio. Gli incendi e le ruspe che fanno spazio alle coltivazioni di palma, permettono così a questa immensa quantità di carbone fossile di sprigionarsi nell’atmosfera. È una vera tragedia ambientale, che mette a rischio la salute del pianeta, la nostra, e nell’immediato quella degli oranghi e delle popolazioni locali.
Ma potrebbe essere arrestata con decisioni concrete e soprattutto col denaro: Greenpeace calcola che con 30 miliardi di euro l’anno le foreste del globo potranno essere finalmente messe in sicurezza. Intanto i grossi oranghi sono così gentili da offrire al premier un biglietto ferroviario, per raggiungere la capitale danese.
Come a dire: basta solo un po’ di volontà.
La stupernità è un tipo assolutamente particolare di stupidità.
Intanto, la stupernità è una stupidità moderna.
E dato che in una società illuminista e tecnocratica, d’umane sorti e progressive, quale la nostra, ci si illude che la modernità contenga in sé un alto tasso di intelligenza, potremmo tranquillamente osservare che – qui ed ora, cioè nel nostro cantone di mondo – la stupernità è un ossimoro: una stupidità intelligente.
Lo avevano capito già le avanguardie storiche che il nostro è un mondo di accidens, accidenti (o cose) calati nelle ambiguità semantiche dell’incidente.
Non è un caso che l’incidente sia a sua volta una stupernità, essendo il ribaltamento d’una funzione tecnologica, la conversione da un uso proprio ad un uso improprio di un oggetto che in condizioni normali reputiamo “intelligente”, (l’automobile, il treno, l’aeroplano, l’i-phone…).
E si spiegano con la meccanica dell’incidente anche il grande vetro di Duchamp e le foto di Man Ray che ne documentano la trasformazione in “allevamento di polvere”. Oppure l’orinatoio rovesciato e le stampelle che si fanno trappola, che squarciano il velo della realtà, sempre in ambito dadaista o surrealista.
Ed infine, una volta trasposti i principi di quelle avanguardie alla realtà, siamo arrivati all’opera d’arte totale, l’attacco alle Torri Gemelle, documentato – così come si documentano le performance – da migliaia di punti d’osservazione diversi e registrato sulla rete globale della conoscenza. Si scopre così che le regole del terrorismo sono le stesse della pubblicità: un messaggio può affiorare nel rumore dell’unica vera realtà, quella mediatica, solo a patto di avere il giusto grado di violenza.
Ma stupernità è anche quello che mi capita più o meno una o due volte alla settimana e che sarà capitato certamente anche a voi.
Accendo il portatile, mettiamo, per tradurre un testo; al che, un messaggio attrae la mia attenzione comunicandomi che alcuni aggiornamenti sono indispensabili. Non voglio mettere a rischio la mia preziosa memoria digitale e, apprensivo, decido di installare gli aggiornamenti. Torno alla mia traduzione. Ma proprio quando ho acquisito il giusto grado di concentrazione, il computer mi comunica che deve essere riavviato. Il disco rigido inizia a girare, qualcosa non va e per venti minuti il “sistema” resta piantato, mostrandomi lo sfondo colorato di una qualche foto presa in Messico o California. Apprensivo, ancora, seguo la luce del disco rigido lampeggiare. Attendo che finisca di scrivere (non so bene che cosa scriva tutto il tempo la mia macchina).
Spengo a mano.
Riaccendo.
Risentito, il computer mi comunica che non è stato spento correttamente. Lo avvio. In altri quindici minuti ho finalmente di nuovo il diritto di tornare alla mia traduzione, rapita per un’ora dalla stupernità, che ghigna dietro ogni ontologica catastrofe quotidiana.
Almeno fino ad ora (14 novembre 2009, h15:28) un comune elaboratore di testi non riconosce in stupernità nessuna parola: al tasto destro sulla parola sottolineata in rosso campeggia (in grigio) la scritta “nessun suggerimento”; né Google è in grado di suggerirmi una parola alternativa, per ottenere qualcosa di più dei 0 risultati (non) visualizzati.
Ma fra qualche ora questa mia ultima affermazione sarà falsa.
Basterà infatti digitare la parola nel motore di ricerca per avere il primo risultato. Questo.
Una faccenda assolutamente stuperna.
Nel marzo 2006 Parigi m’innamorò.
Ed era la vita notturna a rapirmi. Dalla perpetua e sonnacchiosa Roma ad una capitale in cui era impossibile restare a casa.
Una capitale in cui le Notti Bianche erano all’ordine del giorno e non un’annuale eccezione alla regola.
All’epoca c’erano il Bal des Pianos alla ghigliottina, le domeniche danzanti al Théâtre de verre a due passi dai Grands Boulevards, la Générale des Arts nel cuore di Belleville, gli squat e le occupazioni artistiche, le crémailleres private che aprivano le porte ai passanti (mitica una serata casuale in un appartamento sul boulevard Voltaire), i balli alla Mer à boire. I bistrot roventi di fumo e concerti.
E poi c’erano i pic-nic sul bordo della Senna, al pont des Arts, sul canal St. Martin. Le birre gelate ai Trois frères, con la folla di avventori riversata per le strade del XVIII e gli organetti improvvisati in piena Montmartre.
Fu una lunga estate calda, quella.
Estate di sassofoni nella metropolitana e di tuffi nella Senna.
Bastava incamminarsi per la Buttes-aux-cailles per sbronzarsi, e cantare in strada scivolando a sud, in discesa verso un deposito ferroviario dismesso ed intrufolarsi poi nelle misteriose catacombe.
Certo, all’epoca Parigi già bruciava d’inquietudini e risse.
Era quello il tempo degli incendi e delle rivolte nelle Banlieu. L’epoca dello sciopero anti-cpe e dei lacrimogeni in strada e degli scontri a place Nation. L’epoca delle notti bianche con le coltellate in pieno centro e dei capodanni irrorati d’alcol e violenza.
E quindi si reagì. Con la telesorveglianza totale.
E venne la stagione della polizia e del controllo.
Oggi gli squat sono stati tutti più o meno sgombrati, la Guillotine s’è dovuta trovare una casa a Nanterre, sul canal St. Martin uno spinello può valere l’arresto, ed il leitmotiv delle notti passate a fumare fuori dai locali per via della legge antifumo è: niente bicchieri fuori, niente chiacchiere ad alta voce.
Questione di buon vicinato. E di polizia.
E davvero fa impressione la quantità di guardie messe a controllo di rue e boulevard: in bici, coi pattini, con le moto e le volanti non fanno che battere in lungo e largo la capitale.
Ed il poliziotto francese, con le sue armature in kevlar, i manganelli ben esposti e gli stivaloni militari, fa ben più paura di quello italiano.
Delle morte della nuit folle se ne sono accorti diversi organizzatori ed artisti della capitale francese, che in questi giorni in un appello che sottoporranno alle autorità municipali, parlano di «Paris, ville mortuaire», «ville soumise».
Mi pare però che l’Ancient Regime ritorni un po’ dappertutto in Francia, se appena un mese fa, a Metz – dove c’era la Notte bianca – mi sono imbattuto in uno squadrone di CRS (letteralmente Compagnie Repubblicane di Sicurezza) che in abiti paramilitari picchiavano un gruppetto di diciottenni, rei soltanto di esibire una sbronza rumorosa nella ricca e calma provincia del nord.
Spero solo che tutto questo non valga come consolazione a Roma, che rispetto a quel lontano 2006 è certo meno plumbea di Parigi ma sempre sonnacchiosa, immobile, statica.
Erano i giorni della gelatina e dei fotoni.
Sul bordo del Canal St. Martin incontrai un giovane ricercatore in genetica. Si stupì di vedermi appassionato di DNA, virus e patologie. E fu così che parlammo fino a sera inoltrata nella dolce trasparenza autunnale di Parigi.
Mi colpì una sua considerazione epigrafica: « Una cosa inizia ad esistere quando iniziamo a vederla ».
Mi parlava di un ricercatore della Berkley University, pioniere nello studio dei retrovirus, il cui lavoro ha contribuito a stabilire l’interazione e la correlazione di questi microorganismi con il patrimonio genetico umano, ed il loro ruolo nello sviluppo di malattie quali il cancro e la leucemia.
Una vera autorità in materia, cui si aggiungeva, però, un alone di follia.
Il mio nuovo amico raccontò infatti che Peter Duesberg – questo il nome del luminare – è il principale sostenitore della teoria “anti-HIV”, secondo la quale il virus non sarebbe causa diretta dell’immunodeficienza acquisita, cioè di quella che siamo abituati a chiamare AIDS.
A Duesberg aggiunse anche il nome di Kary Banks Mullis, altro eclettico luminare dell’università californiana – Nobel in chimica per avere sviluppato la PBM, una tecnica fondamentale per la moltiplicazione in vitro del DNA – anche lui da anni impegnato in una polemica sulle cause dell’AIDS ed il ruolo dell’HIV in tale sindrome.
Ma appassionato ed archiviato fu nel mio cranio l’argomento del biologo del Canal St. Martin.
Fino a quando qualche giorno fa non mi imbatto in una curiosa notizia pubblicata dal Corriere della Sera e battuta da tutte le principali agenzie.
Il titolo dell’articolo – nella sua versione cucinata del quotidiano milanese – era “Sempre stanchi? La febbre «da yuppie» è causata da un virus” e per sommario: “Svelata l’origine dell’affaticamento cronico. Sarà possibile usare i farmaci anti AIDS”.
“Febbre da yuppie” è un’efficace definizione giornalistica per quella malattia fumosa, molto simile all’influenza, che si manifesta con la stanchezza continua, le febbriciattole ed il mal d’ossa e che va e viene a suo piacimento per periodi variabili.
Un male sottile, di cui si cominciò a parlare alla metà degli anni ’80, in occasione di una “epidemia” verificatasi sul Lake Tahoe, fra la California settentrionale e l’Arizona. Una nuova misteriosa patologia classificata e schedata nel bel museo delle paure dell’occidente.
E veniamo alla sostanza della scoperta di queste settimane, che è riassumibile così: la CFS (Chronic Fatigue Sindrome) sarebbe di origine virale (cioè corpuscolare, fisica, concreta, indotta da microorganismi, dunque “esterna” all’uomo, immanente) e non la precisa manifestazione delle imprendibili e quasi concettuali cause di cui si parlava fino ad oggi, come lo stress ed i ritmi di vita serrati, già connessi a tante altre malattie del millennio, come il cancro, l’ipertensione, la cefalea, l’infarto.
Una delle cause determinanti della malattia potrebbe dunque essere un retrovirus che normalmente infetta i topi, lo Xenotropic Murine Leukemia virus (XMRV).
Le “istituzioni di tutto rispetto” che avrebbero dato la grande notizia sulle pagine di Science – riporta ancora il Corriere – sono il National Chronic Fatigue Syndrome Institute del Nevada ed il Whittemore Peterson Institute di Reno.
Praticamente la stessa istituzione, visto che in entrambi i direttivi compaiono i nomi della filantropa Annette Whittemore e del dottor Daniel Peterson, da anni impegnati nella lotta a questa malattia con farmaci a dir poco controversi.
Ipotesi Duesberg
Ciò che vediamo esiste. O meglio comincia ad esistere dal momento in cui lo vediamo.
Nel caso del virus dell’HIV si tratta del 1983, quando Luc Montagnier e Françoise Barrè-Sinouss, lo isolarono ed osservarono per la prima volta, in un laboratorio francese.
L’AIDS, invece è una sindrome, appunto, caratterizzata da un paniere amplissimo di sintomi, che nell’uomo si manifestava già prima che si conoscesse l’HIV ed il cui decorso è altrettanto nebuloso di quello della sindrome dello Yuppie.
Un profano come me può immaginarsi l’AIDS come il comportamento anomalo d’un corpo umano ove le normali difese immunitarie smettono di funzionare, inibendo la naturale reazione al mondo esterno, ed inibendo, infine, la vita.
E qui inizia la polemica di Duesberg, che si limita a notare come i deficit immunitari possano essere indotti da un arco molto vasto e piuttosto imponderabile di cause.
E d’altrone una correlazione fra immunodeficienze ed esposizioni a particolari agenti ambientali è osservata già prima della definizione di AIDS.
Il peccato originale, per Peter Duesberg, si consumerebbe nel 1984, quando l’allora segretario dei servizi per la salute americani, Margaret Heckler, annunciò in tutta fretta che il dottor Robert Gallo aveva isolato il virus dell`HIV, e gli attribuiva il ruolo mai verificato di causa dell’immunodeficienza acquisita.
Si apriva così la lunga stagione di successo della teoria HIV-AIDS.
Secondo Duesberg, però, tale correlazione andrebbe rimessa in discussione a partire da quattro domande d’oro: l’AIDS è davvero indotta da un virus? Se non è così quale sarebbe il ruolo dell’HIV nella sindorme? Il deficit immunitario può essere causato da agenti chimici? Il trattamento impiegato dell’HIV può causare a sua volta l’AIDS?
Ed infine, perché l’AIDS Africana è così diversa da quella europea ed Americana?
Queste domande sono utili, neanche a dirlo, anche per gettare uno sguardo diverso sulla proliferazione mediatica di virus e pandemie, cui in questi anni stiamo assistendo.
Alla domanda se l’AIDS sia davvero indotta da un virus, Duesberg risponde con le caratteristiche della sindrome, che ne testimonierebbero la natura non virale.
In primo luogo, dice Duesberg, i virus patogeni causano infezioni specifiche e contagiose, e sono sempre presenti nei pazienti che ne manifestano i sintomi: per contro l’AIDS di suo non è contagiosa, ed oltre 26 patologie connesse all’AIDS non sono neanche di tipo virale, (la perdita di peso, la demenza, il cancro).
In secondo luogo, nelle affezioni d’origine virale abbiamo periodi di incubazione piuttosto corti: nel caso dell’AIDS non si spiegherebbe la ragione per cui a fronte di una rapidissima e subitanea replicazione dell’HIV nell’organismo ospite, la manifestazione della malattia conclamata occorrerebbe solo a distanza di almeno 5-10 anni, quand’anche non più tardi.
In terzo luogo nelle patologie virali i primi sintomi si verificano quando un alto numero di anticorpi (T-cells) decadono: è ciò che accade nell’AIDS, ma senza connessione apparente con l’HIV, che infetta solo uno di questi anticorpi su cinquecento.
Duesberg prosegue notando che le epidemie virali aumentano e diminuiscono nel tempo, disegnando delle curve “a campana” con espansioni e contrazioni cicliche a coppie di due e quattro, mentre l’AIDS è aumentata costantemente per due decadi, contraendosi poi bruscamente, senza rispettare queste oscillazioni tipiche delle patologie virali. E ancora si deve osservare che contrariamente all’AIDS, i virus patogeni sono trasmessi orizzontalmente, e ne è fatale la trasmissione neonatale.
Anche da un punto di vista statistico, l’ipotesi HIV-AIDS non sarebbe accettabile per Duesberg, in quanto le patologie virali si manifestano casualmente nella popolazione, quando invece l’AIDS colpisce con una certa “logicità”: la sua diffusione riguarda precisi contesti sociali e può essere associata a stili di vita come l’omosessualità ed il consumo di droghe e farmaci. Si pensi inoltre, notano gli anti-HIV convinti, che non si registrano casi di infezione negli staff medici e paramedici impegnati sul trattamento della sindrome da ummunodeficienza: ciò che indurrebbe a pensare che una trasmissibilità della sindrome è praticamente impossibile, anche a contatto stretto con individui che l’abbiano in stato avanzato.
Per ultimo l’AIDS non risponderebbe neanche ai postulati di Koch, fondamentali proprio per stabilire la correlazione fra una malattia ed un microorganismo. Sono quattro principi, atti a verificare se la presenza di un batterio o di un virus nel malato ne sia la causa patogena, oppure se non si tratti di organismi “di passaggio” che approfittano di uno stato o di un male preesistente dell’ospite.
Secondo Koch un microorganismo ed una patologia sono connessi solo se si verifichino quattro condizioni: (1) lo stesso microorganismo deve essere presente in tutti i casi studiati; (2) questo microorganismo deve poter essere isolato dall’ospite, clonato e coltivato in laboratorio; (3) il microorganismo così replicato in laboratorio dovrebbe causare la stessa patologia se inoculato in un altro ospite, da cui (4) dovrà poi a sua volta essere isolato.
Detto questo, il dato più sconcertante che emerge dalle osservazioni di Duesberg è che a parità d’una presenza costante del virus dell’HIV nella popolazione mondiale a partire dalla sua scoperta negli anni ‘80, l’AIDS come malattia ha conosciuto una curva ascendente fino al primo triennio degli anni ’90, dopo il quale ha cominciato a decrescere.
Alla base della costanza del virus che abbiamo cominciato a vedere starebbero le attuali tecniche di analisi della sieropositività, le quali non sono basate sull’effettiva individuazione del virus nel sangue, ma sulla presenza di antigeni nel sangue o di catene genomiche nel DNA del paziente analoghe all’RNA del virus. Questi procedimenti di verifica indiretta del virus nell’ospite, possono facilmente registrare l’infezione laddove essa non esiste, o addirittura scambiare normali sequenze di DNA del paziente per una infezione da HIV.
Che in parole povere vuol dire diagnosticare come sieropositivo un individuo del tutto sano.
Rivoluzione Duesberg
Per quanto ne sappiamo, allora, l’HIV potrebbe anche rientrare nella vasta casistica dei virus opportunisti, quelli cioè connessi ad un disturbo solo in misura parassitaria.
E l’HIV incontrerebbe addirittura tutti i parametri che fanno di un virus un “passeggero”.
Fra gli altri è importante ricordarne tre: il fatto che pazienti affetti da AIDS non sempre mostrano di avere contratto il virus (cinquemila erano nel 1993 i casi documentati di questo tipo); secondariamente che, come per gli altri virus opportunisti, l’HIV è presente nell’organismo ospite anche anni prima del manifestarsi dei sintomi della malattia; infine, che i virus passeggeri sono presenti in grande quantità specialmente nei soggetti immunodeficienti.
Già nel 1981, il New England Journal of Medicine aveva ventilato l’ipotesi che la sindrome da immunodeficienza acquisita fosse legata a determinati stili di vita.
Il Dr. D.T. Durak, autore principale di quell’articolo direi “seminale”, datato 10 dicembre, riteneva possibile trovare le cause delle epidemie che affliggevano la comunità omosessuale di San Francisco in un cocktail di sesso e droghe ricreative (nel mirino c’erano soprattutto i nitriti come il popper, oppure altri stimolanti come le amfetamine, la cocaina, l’eroina) e nelle condizioni igieniche della città pari in certe zone a quelle dei paesi sottosviluppati, con grande proliferazione di malattie infettive e sessualmente trasmesse come la gonorrea, la sifilide, vari tipi di parassiti, la dissenteria.
Le sostanze chimiche sono da diverso tempo riconosciute anche dalla letteratura medica “ufficiale” come possibili cause di molti shock immunitari.
Un altro dato sorprendente nelle osservazioni successive di Peter Duesber è che molti dei sintomi propri dell’AIDS sono identici ad alcune patologie indotte dall’eroina, dall’amfetamina, dalla cocaina e dai nitriti, e che la curva di andamento dei casi di AIDS seguirebbe le stesse oscillazioni di quella che disegna la diffusione delle droghe ricreative, provando una correlazione piuttosto diretta fra consumo di stupefacenti e inibizione degli anticorpi.
Altri fattori – sempre di carattere ambientale – come l’inquinamento, la denutrizione o l’errata alimentazione, l’esposizione a particolari agenti chimici, potrebbero contribuire all’insorgere dell’AIDS: ciò che spiegherebbe anche la divisione della malattia in tre grandi famiglie, quella asiatica, quella euroamericana e quella africana, diversi per paniere di patologie possibili e soprattutto per decorso.
Come a dire: un AIDS per il Terzo Mondo e la sua malnutrizione, un AIDS per l’opulenza ed i suoi vizi.
Ma c’è AIDS un po’ per tutti, stando allo straordinario film documentario di Rob Scovill, “The other side of AIDS”, che spinge particolarmente sull’assenza di definizioni chiare d’una sintomatologia dell’AIDS e sulla non-validità dei test per individuare il virus dell’HIV.
La cura
Alla malattia infettiva, in occidente, si risponde con la cura ad impatto distruttivo.
Per i virus, la cui azione si esprime nell’usare le cellule ospiti e gli organuli in esse contenuti per produrre le proprie proteine, un trattamento diretto è praticamente impossibile. Per cui si ricorre sovente a farmaci “generici”, ovverosia non espressamente creati per la cura dei patogeni specifici.
L’HIV non esula da questa pratica, ed a partire dal 1987 l’AZT è diventata una delle sostanze principali impiegate nel cocktail che si somministra agli HIV positivi per l’arresto della proliferazione del virus.
Ora, l’AZT è un veleno nel vero senso del termine: usato a partire dalla metà degli anni ’60 come farmaco chemioterapico, è in grado di arrestare l’attività di produzione delle proteine, inibendo o facendo impazzire l’attività biologica delle cellule. Come tutti i farmaci chemioterapici è altamente tossico, corrosivo e causa di una serie di patologie tutte più o meno riconducibili all’immunodeficienza, come la perdita di peso, il cancro, l’ingigantimento dei linfonodi…
Dal 2001 oltre il 50% di americani ed europei malati di AIDS e trattati con farmaci anti-HIV, è morto di problemi al fegato, di malattie cardiache ed arresti renali. E s’è visto che i pazienti emofiliaci affetti da virus HIV sono esposti praticamente a morte certa con il trattamento a base di AZT, sulla cui efficacia, fra l’altro, non sono in pochi a dubitare.
Ma si persevera.
Tanto che il farmaco chemioterapico continua ad essere impiegato anche per la cura delle donne incinta HIV positive, ed in America i figli di genitori sieropositivi, pur se HIV negativi, vengono obbligati ad assumere la cura, con conseguenze ancora imprevedibili sul loro sviluppo in età adulta.
La sindrome dello yuppie
E torniamo alla sindrome dello yuppie, assimilabile per astrattezza clinica all’AIDS.
Intanto, come mi accorgo se ho la sindrome dello Yuppie?
Sei mesi di fatica senza causa apparente, presenza di almeno quattro di otto sintomi persistenti: cali di memoria e concentrazione, mal di gola, comparsa di linfonodi, dolori a muscoli e alle articolazioni, tendiniti, mal di testa, disturbi del sonno e disagio dopo gli sforzi.
Anche per la sindrome da stanchezza perpetua ci abitueremo ad usare l’AZT.
Magari in abbinamento ad un po’ di cocaina ed amfetamina, che danno sempre una bella svolta al morale.
Questo se il lettore si dovesse fidare ciecamente della filantropia.
Altrimenti, basta fare un giro nei siti ufficiali delle singole istituzioni che si occupano della nuovissima malattia da affaticamento, per dare un’occhiata ai curricula sul piatto. La presidente del Whittemore Peterson Institute, è Annette Wittemore, di mestiere maestra e filantropa, co-fondatrice del National Chronic Fatigue Syndrome Institute in Nevada, ed è una democratica convinta, a giudicare dalle tabelle delle sue donazioni elettorali.
Assieme a lei c’è il dottor Daniel Peterson, uno dei pochi in America ad avere avuto l’autorizzazione della Food and Drug all’uso di un altro farmaco molto controverso, l’Ampligen, impiegato per la cura della sindrome da fatica permanente.
L’Ampligen ha una storia tutta particolare: inventato non si sa bene per quale ragione nel corso degli anni ’60, a partire dall’1988 – stando alle informazioni disponibili in rete – fece la fortuna della casa Hemispherx, irrorata da ben 30 milioni di dollari dal colosso farmaceutico DuPont, per una applicazione su larga scala della molecola.
Farmaco tuttofare, non ha ancora ottenuto dalla FDA l’approvazione all’uso in larga scala, ma è stato candidato per la cura di tante altre malattie, fra cui l’influenza suina, quella aviaria ed ora anche… l’AIDS.
E pure qui, come per l’AZT con l’AIDS, sembra che alcune alterazioni indotte dal farmaco nei processi di trascrittrasi del DNA (RNase L), siano causa e non cura della sindrome da affaticamento cronico. Tanto che la Hemispherix è stata più volte diffidata dalla FDA per avere promosso l’impiego del farmaco, arrivato appena quest’anno alla “fase tre” del test sull’uomo, ma già ampliamente inserito nelle terapie del dottor Peterson e compagni.
La malattia per la medicina
Nel contemporaneo la produzione è al primo posto, lo sappiamo.
Basta produrre.
Il farmaco è prodotto a priori. Poi si può sempre trovare una malattia per impiegarlo.
E come nel caso degli antivirale è facile che il mercato ne abbia un improvviso bisogno capace di esaurire le copiose scorte.
Lo abbiamo visto con l’aviaria, con l’influenza suina, con l’influenza A.
E se una malattia non si trova, bisognerà inventarsela.
La questione Duesberg non è solo una disputa scientifica e medica sulla cura e l’origine di una malattia, ma una messa in discussione del nostro sistema nella sua interezza.
Ed è per questo che la comunità scientifica internazionale lo tratta da cialtrone o polemista indefesso.
Il problema è che lo studioso di origine tedesca, pone esplicitamente delle questioni di carattere formale sul sistema di indagine scientifica attuale, sempre più influenzato dai media e dalle grandi corporation, cui è demandata la formazione ed il finanziamento delle ricerche in ambito universitario, oltre che applicativo.
Il sistema scientifico segue la pioggia del denaro privato.
E ne esce accecato dai grandi interessi di gruppo, tanto che si fa sempre più difficile per uno studioso scollarsi dalle teorie universalmente accettate da una comunità scientifica asservita al potere e influenzata a sua volta dai mezzi di comunicazione di massa.
In questo panorama la ricerca pura è sostituita col suo contrario, con l’omologazione delle teorie e degli assunti scientifici, che fa dell’originalità della scoperta il suo opposto esatto, ammutolendo ogni timida voce di dissenso.
Abituati a relazionarsi con un lavoro sempre più frazionato in segmenti e specificità, i ricercatori sembrano avere perduto la visione d’insieme e la direzione generale della scienza, autocensurandosi con la produzione di quelle che sembrano sempre più analisi di mercato e sempre meno vere scoperte scientifiche.
In fondo è questo il senso delle numerose riforme accademiche e del profondo cambiamento dell’università cui, anche in Europa, abbiamo assistito negli ultimi anni: i giovani ricercatori sono invitati sempre di più ad accettare passivamente teorie e metodi scientifici imposti dalla maggioranza, vedendosi ristretti sempre più i margini di creatività ed invenzione originale.
Ed è questo il senso degli allarmismi attorno alle pandemie globali.
Alla “maggioranza rumorosa” rappresentata dai media, si aggiunge in questo modo una intellighenzia silenziosa della scienza, sempre più incapace di astrarre dal dettaglio delle proprie ricerche specifiche, sempre più parte del tutto e quindi sempre più ingranaggio della macchina produttiva tecnologica.
Etica
V’è poi la questione più espressamente etica e politica.
Se le ipotesi di Duesberg dovessero essere confermate con maggiori dati e riscontri, si porrebbe un problema assai più ampio di riforma degli stili di vita e delle abitudini occidentali.
L’immunodeficienza potrebbe insomma essere l’ultima e più tragica prova di quanto le nostre esistenze sottovuoto, i consumi, l’opulenza, lo sfruttamento del Mondosud, l’esposizione agli agenti chimici, il narcotraffico e l’uso di sostanze stimolanti per l’aumento della produttività, siano contrarie non solo alla natura psicologica dell’uomo, ma anche alla sua integrità fisiologica.
Più che una teoria medica, quella di Duesberg è una critica a tutto campo allo stile di vita occidentale (e di riflesso una critica alle conseguenze che questo stile di vita ha sui paesi in via di sviluppo). È una critica al meccanismo della crescita perpetua, che oltre al già noto corollario di patologie psicologiche e fisiche rilevate dalle statistiche, ne aggiunge una più misteriosa, l’AIDS, che in fin dei conti è una sorta di inspiegabile e subitanea impotenza biologica dell’uomo rispetto all’ambiente che lo circonda.
Disinfettati ed impacchettati, condizionati e chiusi a produrre nelle nostre scatole di calcestruzzo, spinti sempre di più verso una dipendenza farmacologica che fa bene solo alle grandi corporation farmaceutiche, gli uomini del nuovo millennio sono così rassicurati da un sistema scientifico servo dello status quo, in cui la ricerca è sempre più delegata ai grandi interessi globali.
Non è allora un caso questo insorgere continuo di virus, questa proliferazione di nuove patologie, questa ostinazione nel dare un nome a un complesso di sintomatologie, la cui causa dovrebbe oggi più che mai essere ricercata in una precisa condizione spirituale in cui versa il nostro lato di mondo.
Nella civiltà della reificazione assoluta, (dove ogni comportamento è reso possibile dall’infinita disponibilità dei mezzi e dell’assoluta assenza di giudizio) è impossibile accettare che edonismo e consumi possano nuocere: si ricorre così alle cause, per così dire, “corpuscolari” del male.
Un organismo altro all’uomo è il responsabile.
Il male è al-di-fuori (al di qua?) di noi stessi.
E la lotta contro un esercito di virus, di batteri, di microorganismi – invisibili e spaventosi – è certamente molto più facile da condurre – e certamente anche più utile come collante sociale per la sottomissione durevole – di quanto non lo sarebbe un faccia a faccia con le nostre malattie dell’anima.
Snobismi e anniversari
Un po’ snob il New York Times ironizza sul fenomeno degli anniversari di morte, nella civiltà del rimbalzo mediatico celebrati quasi quotidianamente, per ricordare i miti della storia e del costume antichi e presenti, in una sorta di testardo attaccamento al passato.
Il commento esce in corrispondenza di un anniversario particolare, quello di Ernesto “Che” Guevara, che sembra sia stato dimenticato da tutte le sinistre della nostra parte di Mondo. Nessuna celebrazione nostrana: solo il riflesso televisivo delle manifestazioni organizzate un po’ in tutta l’America Latina.
A leggere le agenzie stampa del 9 ottobre, per i 42 anni della tragica morte dell’ultimo rivoluzionario della storia, si sarebbero scomodati soltanto il regime castrista, Evo Morales e pochi altri. Morales, e con lui il Sud America, hanno dunque ostinatamente ricordato la forza della rivoluzione, incarnata nel Che “irraggiungibile nella sua lotta, impeccabile, invincibile, nei suoi ideali.”
Che Guevara è del resto uno strano eroe, forse più comprensibile al nostro occidente negli anni ’70, che oggi.
Eroe “mediatico” per vocazione, il Che condensa molti dei paradossi della globalizzazione.
Se non altro per questioni meramente cronologiche (e vedremo che non è solo così), perché la sua rivoluzione perpetua finisce proprio quando i sogni dell’Europa e degli Stati Uniti si riempivano di una nuova primavera politica ed appunto, mediatica. Nel ’68 sta l’origine della nuova civiltà edonistica e pubblicitaria, l’atto di fondazione della civiltà contemporanea. Nel ’68 sta la rivoluzione applicata all’occidente. La televisione. Ed infine, il liberismo positivo, il progressismo.
La grande normalizzazione
L’incorruttibilità degli ideali che si fa eterna nella morte precoce. Eccola la salma di Che, divenuta presto il Cristo di Vallegrande, immolata alla giustizia ed all’uguaglianza dei popoli, adorata come la reliquia d’un santo. Santo rischioso per tutti i regimi del mondo, e nella contingenza per quello Boliviano, che quindi lo nasconde in una fossa comune e ne cela le spoglie. Troppo roventi per il mondo.
Ed ecco il Che, in questa neonata civiltà della diretta televisiva, rimbalzare di fotogramma in fotogramma, di maglietta in maglietta, eroe mediatico e fotografico, icona fortunata di una generazione che s’è poi affaccendata in altre più gravi omologazioni e che l’ha lasciato nei poster dei figli, consumando l’ultimo estremo peccato, l’idolatria.
Il marketing quotidiano delle icone del Ernesto Guevara è l’ennesima riprova dell’integrazione igienica di tutte le idee, nel grande calderone che chiamiamo mercato libero e comune.
Svuotare l’oggetto del contenuto e farne una splendida forma non è infatti il fine del design?
Che Guevara, svuotato come una zucchina, riempito della carne succulente della rivolta temporanea e normalizzata. La facile rivolta.
Depurare questa immagine nera e rossa di tutto il sangue toccato.
Depurare il guerrigliero della sua essenza etimologica: privarlo della guerra.
Qualche giorno fa, in ambiente, per così dire, di “sinistra”, si parlava del regime castrista. Al che, con grande stupore, ho udito i miei interlocutori dichiarare che Che Guevara era un uomo terribile. Dogmatico, addirittura.
E così m’è stata consigliata la lettura di un autore che in Italia ha avuto il privilegio di una sola traduzione.
Rinaldo Arenas: romanziere cubano, esule dal regime castrista dopo una lunga peripezia di carceri e fughe e tentativi di approdo ad una costa democratica. Morì nel 1990, di AIDS.
Scrisse: «La differenza fra il sistema comunista e quello capitalista, è che se ti danno un calcio in culo, sotto un sistema comunista devi applaudire, sotto il capitalismo puoi gridare; io sono venuto qui a gridare.»
Ma si sbagliava su un fatto, Arenas, e precisamente sulla questione dell’utilità del grido, che in Occidente rischia di diventare una canzone da ballare con le piume nel culo, o magari un nuovo successo discografico.
Buoni e cattivi
Così i buoni inneggiano a Che Guevara con il merchandising da bancarella. O quando sono più chic se ne vanno a comprare l’ultima tazza alla moda con l’effige del comandante nelle nuove fiammanti librerie-supermercato Feltrinelli.
Ma guai a ricordarne la forza sovversiva: quella rivoluzione spirituale richiesta al guerrigliero non è più attuabile oggi, e meno che mai nelle sinistre progressiste. Che Guevara sembra rivolgersi a loro, quando risponde: “L’unica battaglia che ho perso è stata quella che ho avuto paura di combattere.”
Che Guevara non è solo un’icona, è anche la perfetta realizzazione di questo atroce funzionamento del capitalismo. Per cui il fotogramma donato da Alberto Korda al nostro Feltrinelli diventa una delle immagini più stampate sul pianeta. Dalla rivoluzione al capitalismo, e ritorno.
Rivoluzionari, editori, guerriglieri, terroristi: quando si guarda alla storia del Che non è difficile scovare di questi collegamenti. Ed allora all’epoca dell’anti-terrorismo si reagisce con la pace perpetua, non importa se questa diventa anche pace dei sensi, “dittatura del sorriso”.
Ciò che resta del Partito Comunista Italiano legge forse in Guevara un assioma sinistro.
Hanno magari paura che il maquillage televisivo che si sono fatti in tutto questo tempo, venga smentito da un eroe tutt’altro che girotondino, votato all’azione e, perché no, ardito e sanguinario.
Vicino al “Che” «tenero» e «duro», non va infatti dimenticato quello dell’odio «come fattore di lotta; l’odio intransigente contro il nemico, che permette all’uomo di superare i suoi limiti naturali e lo trasforma in una efficace, violenta, selettiva e fredda macchina per uccidere. I nostri soldati devono essere così: un popolo senza odio non può distruggere un nemico brutale. Bisogna portare la guerra fin dove il nemico la porta: nelle sue case, nei suoi luoghi di divertimento. Renderla totale.»
Si capisce perché i cattivi trovino nel comandante ancora tanti spunti, perché non hanno paura di imbrattare i salotti buoni del sangue spremuto ai nemici della rivoluzione. Cattivi Chavez e Morales appunto, e qui da noi la destra extraparlamentare, la quale non lo riscopre ora, come ha detto qualcuno, ma da almeno quarant’anni ne elogia la vocazione all’azione, all’autodeterminazione, al superomismo perfetto ed implacabile di chi è disposto al sacrificio estremo per la difesa delle proprie idee.
Polemiche
Qui da noi cattivi sono soprattutto i fascisti.
Ed i fascisti del nuovo millennio, come amano definirsi loro stessi, organizzano a Casa Pound un convegno dedicato alla figura di Ernesto Guevara, in occasione ovviamente dell’anniversario della morte del rivoluzionario e per parlare dell’ennesimo libro dedicato all’argentino, ed in particolare all’assimilazione della sua figura nella destra, appunto. Si tratta de L’altro Che. Ernesto Guevara, mito e simbolo della destra militante di Mario La Ferla.
Il libro esce con Stampa Alternativa già qualche mese fa; ma all’autore la Casa Editrice nega oggi di potere andare a Casa Pound.
L’unico quotidiano italiano che continui a dichiararsi comunista, il Manifesto, con la penna di Antonio Moscato fa poi un duro a-fondo a Casa Pound ed intitola l’articolo “Giù le mani da Che Guevara”.
Moscato – grande storico di Che Guevara – inizia con l’attaccare il libro di La Ferla, definendolo un’accozzaglia di nozioni per lo più errate.
Poi i toni nel suo articolo si scaldano quando il convegno a Casa Pound viene descritto come l’ennesimo tentativo di provocazione fascista che su un “piano pseudo ideologico” tenterebbe “di occupare gli spazi dei centri sociali di sinistra, per provocarli e possibilmente ottenere un intervento repressivo contro di loro”. Assioma necessario dopo essersela presa con “tutti gli altri invitati, infami o stupidi che siano, come quel tal Raffaele Morani, ex segretario del PRC di Faenza, oggi vendoliano, che si sente talmente “eretico” da cercare il “dialogo” col peggiore dei gruppi fascisti.”
E giù poi con lo smontaggio rapido delle tesi di La Ferla.
Impasse
L’illuminante intervento di Moscato commette però un errore prospettico.
Da sinistra infatti, non bisognerebbe analizzare quanto Che Guevara sia idoneo a diventare un mito di destra, bensì in che misura il pensiero del Che non appartenga più alla fisionomia dell’attivismo italiano di sinistra.
Ma forse è un’autocritica impossibile per quegli “apostoli di turno che apprezzano il martirio” e che
“lo predicano spesso per novant’anni almeno” : “Morire per delle idee” chiudeva De André-Brassens “sarà il caso di dirlo | è il loro scopo di vivere, non sanno farne a meno.”
È una critica impossibile per una sinistra che dimostrava il suo impasse ideologico già nel settembre del 2006, quando Paolo Cento e Vladimir Luxuria, forti dell’elezione in parlamento, in occasione d’una manifestazione per Renato Biagetti, leggevano una lista di proscrizione (panem! Circenses!) che includeva diverse personalità pubbliche (fra cui il giornalista e pensatore Massimo Fini) ree di « legittimare una cultura violenta e neofascista partecipando alle iniziative di spazi occupati dalla destra radicale romana. »
Di lì l’assioma: « questo assassinio a sangue freddo è comunque di stampo fascista nel senso che è frutto del clima di violenza e di aggressione al diverso, fomentato dai gruppi della destra radicale sul territorio e legittimato dalla destra istituzionale sul piano politico».
Se i fascisti dichiarati perdono la loro fisionomia di aggressori e manganellisti, allora il fascismo deve diventare un fenomeno diffuso: ogni atto di intolleranza è fascista, in modo da potere tornare sempre alla classica divisione del mondo in due, e fugare ogni dubbio sulla validità dell’essere anti- invece di “essere” e basta.
Sono passati tre anni, la neodestra romana è diventata nel frattempo un movimento nazionale, ma negli orti della sinistra si continua a coltivare la pretesa di rappresentare il giusto, di custodire i valori più alti della Repubblica, se non altro per via del fatto d’essere anti-fascisti.
Diffido per natura di chi si definisce attraverso un anti, di chi trova la propria identità nel “contrario a”. Anti, infatti, è un brutto affisso, che in sé ha una violenza pari a quella fascista, tanto disprezzata dai tutori della nostra carta nazionale. Già Mino Maccari diceva (copio da Massimo Fini): « i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti propriamente detti e gli antifascisti».
Anti-fascisti: non si potrebbe essere più vaghi nelle idee, primariamente perché il fascismo è solo difficilmente mappabile come fenomeno storico, in quanto racchiude istanze assolutamente contraddittorie; secondariamente perché anti-fascismo non precisa alcuna alternativa a ciò cui si contrappone con tanta virulenza.
E la vaghezza ideologica è pericolosa specie se associata a premesse d’aggressione.
Per cui i no-global e gli anti-imperialisti non si stupiscono che un loro ex-parlamentare se ne vada in un reality show, diffondendo quella stessa cultura dell’omologazione berlusconiana oggetto di tanto biasimo. Loro possono permettersi tutto, se non altro perché contribuire alla TV spazzatura è una grande occasione per affermare i diritti dei trans-gender anche al grande pubblico televisivo.
Lo sosteneva Luxuria in persona, presentando qualche mese fa il suo libro alla Feltrinelli di via Appia Nuova, supermercato della cultura, nato sulle ceneri di una antica libreria romana, quella sì, local ed in crisi permanente fino all’arrivo del brand comunista, che oltre all’ipod ed ai ciddì organizza anche incontri illuminanti con la crème della nuova intellighenzia italiana (e penso a Giorgio Panariello, visto scandalizzarsi pubblicamente durante la presentazione del suo libro, contro un giovane che mentre sceglieva un cd stava al telefono… non credo ci sia bisogno di ricordarselo, questo signore, col telefono alla mano e ricoperto di banconote, perché ce lo sorbiamo tutti i giorni a reti unificate nel grande mercato della pubblicità cellulare, ma questa è altra storia).
Domande
Non toccate Che Guevara!
E non è l’unico no che i neocomunisti mettono a tutela dei valori costituzionali.
Ce n’è per tutti i gusti.
Per cui Nicolai Lilin, piccolo caso editoriale di Einaudi, decide di andare a Casa Pound per la presentazione della sua “Educazione siberiana” e riceve i fischi della sinistra che lo aveva scoperto come amico di Roberto Saviano. Il giovane autore d’origine siberiana deve così difendersi con una lettera aperta.
Poi c’è il caso di Anna Paola Concia, rea anche lei di avere accettato un invito di Casa Pound per discutere di omosessualità ed intolleranza. Anche qui una lettera aperta pubblicata su “L’altro”, in cui la deputata del PD deve giustificare la sua presenza nella sede centrale di questa scomoda «destra “fascista”, “estremista”, impresentabile, non da salotto buono».
I casi di questo tipo sono innumerevoli e vorrei chiudere l’enumerazione citando ancora la defezione di Luciano Ummarino e Claudio Marotta dalla redazione, de “L’altro”. Avranno preso male il rinnovato successo mediatico di Casa Pound, che con Action, a Roma, è in diretta concorrenza immobiliare, per così dire.
E del resto, nella manifestazione per la tolleranza e contro ogni forma di discriminazione organizzata a Roma il 24 settembre scorso abbiamo visto sfilare tutti, ma proprio tutti. Tranne quelli di Casa Pound, che pure avevano chiesto di potere aderire, per sconfessare i ridicoli Svastichella romani, prodotto, loro, della sottocultura televisiva e non certo degli intelligenti seminari organizzati in via Napoleone III.
Di che ha paura l’ultratolleranza comunista, ex-fascista, girotondista, normalista, perbenista?
Forse non può accettare che l’ultimo spazio che le rimane, la tolleranza, diventi spazio condiviso anche con la destra extraparlamentare. Che in futuro non si possa rifiutare il dialogo apponendo la solita clausola del rifiuto della violenza e dell’intolleranza.
Forse ha paura che qualcuno gli ricordi che avere una colf al nero non è un atto di solidarietà né una soluzione ai problemi occupazionali del paese.
Paura di discutere, paura di specchiarsi.
Ed eccola la domanda: è più grave parlare di Che Guevara, pur da un’ottica non condivisibile, di destra, superomistica… oppure è più grave disinnescarne la carica ideologica, reificandolo, e trasformandolo in un logo di facile beva, da ingollare possibilmente con una bella sorsata di Coca Cola?
Arrocco
Non toccate Che Guevara! Non toccate la tolleranza!
Ma la cultura politica, quella, chi la fa?
Nell’omologazione dominante viene da chiedersi in quanti a sinistra abbiano compreso la sottile puntualizzazione storica di Moscato.
Già, perché è ridicolo andare a fare gli storici a casa d’altri quando non si ha la forza o la limpidezza di guardare alla storia più recente di casa propria. E vedere magari lo stato dei centri di sociali, la cultura dell’aggressione dominante in certi entourage di sinistra, l’omofobia che pure si manifesta negli ambienti della tolleranza, l’odiosa omologazione delle serate artistiche e multiculturali.
Le numerose lettere di giustificazione e scuse che si leggono in giro e che in parte abbiamo qui citato sono la prova provata di questo clima d’omologazione in cui è vietato pensarla diversamente.
Basterebbe respirare un po’ dell’aria delle serate trendy dei nuovi compagni fighetti, dei centri sociali di sinistra trasformati in sale da concerto e must della movida urbana (con tanto di bar e cocktail, a caro prezzo da discoteca), in cui la politica diventa l’ombra d’un atteggiamento alla moda, o peggio, l’acquisto obbligato del marchio alternativo di turno.
« La rivoluzione si fa per mezzo dell’uomo, ma l’uomo deve forgiare giorno per giorno il suo spirito rivoluzionario ».
La rivoluzione è dunque per Ernesto “Che” Guevara la rivoluzione dello spirito, innanzi tutto. La presa di coscienza quotidiana delle responsabilità individuali rispetto allo stato di cose che si vuol combattere.
«Assenza di ogni indulgenza per i propri errori, in cui ricercava la prima causa di ogni male» dice Moscato… ma da dietro la trincea di chi non s’accorge del proprio peccato originale.
Le monde est pareil.
Partout en Europe des réforme iniques du travail.
Mais la France resiste.
Aussi si les privileges des français seront une illusion.
Une illusion qui est quand même un exemple de lutte.