E’ stata inaugurata oggi a Roma la mostra “Dada e Surrealismo riscoperti”, che occuperà gli spazi del Museo del Vittoriano fino al 7 febbraio 2010.
Il percorso espositivo ripercorre cronologicamente lo sviluppo dei due movimenti, da una parte sorvegliando le singole estetiche dei protagonisti, e dall’altra organizzando le opere seguendo il criterio storico del raggruppamento per esposizioni dell’epoca. Si parte dagli immancabili cadaveri squisiti, frutto di un procedimento non diverso dalla scrittura automatica, consistente nel piegare la tela ed affidare la pittura delle facciate a diversi artisti inconsapevoli del contenuto del resto della tela. Il percorso prosegue con le opere esposte alla collettiva “germinale” del 14 novembre del 1925, per proseguire con l’antologica di Londra dell’11 giugno 1936, ed arrivare all’inaspettata rinascita del Surrealismo nel dopoguerra, ribadita all’epoca da un altro evento antologico nel ’47, sempre a Parigi.
La chiusura del percorso – pensato da Arturo Schwartz e di qualità didattica ma mai didascalico – è affidata agli ultimi strascichi del surrealismo, ovvero alle tre ultime mostre dirette nel ’59, nel ’60 e nel ’65 dagli stessi fondatori del movimento. E v’è qui la dimostrazione che Dada e Surrealismo sono essenze o stili – non già movimenti estemporanei – che hanno accompagnato tutta la storia dell’arte da Bosch a Jarry, dalle pitture rupestri a Gauguin.
Ma tanto per restare sul piano delle qualità intrinseche dell’allestimento, ecco un dato secco: ben cinquecento le opere che contribuiscono allo snodarsi di questo sorprendente percorso alle radici stesse della contemporaneità. E cinquecento opere tutte assieme e mediamente tutte di alto valore storico, quasi saturano l’attenzione del visitatore, che si trova a percorrere le stanze di quello che sembra un vero atelier d’artista, i quadri vicini in quieto disordine, come improvvise illuminazioni.
Del resto che cosa sono il personaggio, lo scenario, l’ambiente surrealisti se non il livido (a volte luminoso) sogno dell’artista nel suo atelier?
Si potrebbe leggere in modo meta-artistico, anzi, l’esperienza del surrealismo, che nel rapido Dada trova le premesse della frattura, ma che si stende poi su pose ed oggetti muti ed enigmatici, al di sopra ed al di là della realtà perché nell’al-di-là dei sogni. Gli oggetti d’atelier, gli ingranaggi della creazione, occupano le notti dell’artista totale, il quale così della vita fa arte e delle cose ready made.
Ed è forse per via di questi sogni d’artista che le opere di Bréton, Duchamp e compagni, sembrano i prodotti di un atelier abbandonato in tutta fretta (G. De Chirico, Bagno misterioso, 1934), o le macchine celibi di una officina impazzita, i cui ingranaggi hanno smesso di produrre biciclette, confondendole con sgabelli e dando vita a tumori tecnologici (M. Duchamp, Roue de bicyclette, 1913).
La razionalità s’ingolfa nelle ascensioni visionarie di questo gruppo di sfollati dall’inconscio e si perde talvolta in voli pindarici nei sogni: è il caso de Le Château des Pyrenées (R. Magritte, 1959) o di Donna avvolta dal volo di un uccello, (J. Mirò, 1941).
Se l’assunto di base di Dada e Surrealismo è in qualche modo lo stesso – quel «no» alle cose del mondo, assunto a vangelo stesso del fare artistico, elementare poesia del contrario – la discontinuità dei due movimenti resta evidente in una specie di quoziente di pericolosità e danno (M. Ray, Cadeau, 1921), onnipresente nel dadaismo ed invece attenuato nelle digressioni più puramente surrealiste.
Se il surrealismo è sogno, coerente nella sua assurdità, Dada sembra l’effetto allucinatorio dell’acido lisergico, deflagrazione che per la sua rapidità rivendica occasionalmente la vicinanza col Futurismo (Farfa, Ritratto geografico di Marinetti, 1925).
Dada è un esplosione, è il linguaggio di chi è affetto da una degenerazione cerebrale cronica, una psicanalisi “en plein air” in cui l’oggetto, decontestualizzato, tradito e vilipeso nelle sue funzioni elementari (M. Duchamp, Porte-bouteilles, 1914 oppure Fontaine, 1917), diventa linguaggio, cambiando di contenuto pur mantenendo intatta la propria forma.
È alla solidità del meccanismo della sorpresa che si affidano i due movimenti (in questo non è sbagliato accusare gli organizzatori della mostra d’una certa superficialità nella traduzione delle didascalie, che non sempre rendono i giochi linguistici alla base della struttura semantica dell’opera, quasi sempre “integrata” alla didascalia), la stessa solidità che caratterizza pressoché tutta la storia dell’arte più recente, da quella concettuale alla post-avanguardia, dal pop alla neoavanguardia, (le rare e lucide eccezioni si trovano ad esempio nel nero “impressionista” e romantico di Rothko).
Nel collage e nel gusto per l’assemblaggio, per il significato, insomma, che scaturisce dall’abbinamento forzato delle cose (H. Bellmer, La bambola, 1938) sta la forza linguistica di queste avanguardie, che intuiscono i valori fondamentali e le regole della comunicazione d’oggi.
La pure ristretta produzione filmica dei surrealisti ha un ruolo chiave nella storia del cinema. Della settima arte, Duchamp, Picabia e gli altri sfruttano il potere affabulatore e vi realizzano così il sogno della significazione allusiva ed “aperta” , della realizzazione d’una realtà altra e mistificata. Nel cinema rêverie e macchine celibi, si fanno viventi (F. Léger, Ballet mécanique ; F. Pacabia l’Entr’acte, entrambi del 1924). Così, l’arte surrealista e dadaista sembra vivere già nel nostro presente: colleziona atti di sovversione del linguaggio, ma nell’interesse per il linguaggio trova anche l’alfabeto essenziale della pubblicità e della comunicazione computazionale dei nostri giorni.
La formazione inquietante, irrazionalista, di quegli antichi e misteriosi “cadavre exquis”, è ripetuta oggi nelle luminescenze televisive che ne copiano trucchi e impatto emotivo, ma con tutt’altra allure rivoluzionaria.
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