Se l’università dimentica filosofia e teologia vuol dire che siamo davvero arrivati ad un punto di non ritorno.
Le cronache italiche si riempiono oggi del cosiddetto dibattito culturale, ove la laicità dello stato sarebbe la ragione che induce 67 professori dell’università “La sapienza” a protestare per la partecipazione di Benedetto XVI all’apertura dell’anno accademico.
L’università più popolosa d’Europa, rifiuta, insomma, in nome dello stato laico, di accogliere il Papa.
Non importa che la cappella de “La Sapienza” sia stata appena riaperta.
Non importa che nelle scuole superiori del nordest il crocifisso sia sulla testa di cristiani ed arabi (cui si vorrebbe però proibire di portare il velo), non importa insomma che in ben altri e più decisivi settori, questa laicità – tanto cara, ad esempio, ai nostri cugini d’oltralpe – venga calpestata e messa in dubbio.
E neanche importa che il problema della laicità dello stato NON emerga quando invece si tratta di affrontare riforme che il sistema sociale richiede con urgenza ad una classe politica che invece si dimostra sempre più riluttante quando si tratta di toccare privilegi, caste, clientelismi, clericalismi. I partiti della sinistra radicale continuano a dare appoggio ad un governo che rifiuta di entrare nel merito dei pacs. E la “cosa rossa” in nome di un improbabile antiberlusconismo, già profila un’alleanza con il neo-vetero Partito Democratico, il quale non cela simpatie clericali e mette all’ordine del giorno un dibattito su quella che nel resto d’Europa è già norma: il riconoscimento delle coppie di fatto.
Ma di cosa si parla in Italia?
Nessun accenno alla laicità dello stato quando si tratta di sperimentazione sulle cellule staminali, nodo cruciale della scienza a venire ed importante settore di sviluppo di un paese che ambirebbe a restare (ma mi viene di dire “tornare”) fra le potenze del beneamato Occidente.
E così noi Italiani, popolo di santi, navigatori e transessuali rimaniamo al medioevo della ricerca, non risolviamo il problema dell’integrazione religiosa, lasciamo che il papa intervenga nelle materie più disparate e poi ci indigniamo se quest’ultimo viene invitato a parlare in una università.
Il rifiuto di Benedetto da parte dell’università di Roma, quello si, è una battaglia da condurre fino in fondo in nome della laicità.
Del resto a queste battaglie individui dello spessore di Vladimiro ci hanno abituato fin dal dopoelezioni, quando in uno stato democratico osarono leggere pubblicamente le loro liste di proscrizione.
E viene da chiedersi come si possa promuovere il bavaglio a chicchessia ed allo stesso tempo sostenere di battersi per la libertà (pure quella antiberlusconiana?) di espressione e la convivenza fra le religioni.
L’università decide di non parlare al Cristianesimo, e cioè a chi – unico dopo l’impero romano – è stato il collante culturale europeo e l’elemento stesso di formazione dell’Europa. Non parlare a chi ha contribuito a tramandare la tradizione dei classici ed a costituire la nostra identità continentale.
La scienza mostra oggi d’esser peggio che ai tempi di Voltaire, quando forse “cieli stellati” sulla testa del fisico e dell’astronomo e del biologo ancora c’erano: la stessa scienza voltairiana ed enciclopedica (fondamento della follia dei moderni) non aveva cotanta faccia tosta. E’ Giorgio Israel a ricordarci dalle pagine dell’Osservatore Romano che quanti hanno scelto come motto la celebre frase attribuita a Voltaire – “Mi batterò fino alla morte perché tu possa dire il contrario di quel che penso” – non possono opporsi a che il Papa tenga un discorso all’università.
E tanto per chiosare sulle origini cristiane dell’Europa anche lo sviluppo del sapere universitario deve molto, quasi tutto, alla storia della Chiesa di Roma.
Bisognerà pure riconoscere che in qualità di teologo (se non vogliamo dire filosofo) e professore a Tubinga Benedetto XVI ha tutto il diritto di parlare all’università.
Per giunta, nel solito ed inutile chiacchiericcio mediatico si apprende anche che la proposta iniziale di tenere una lectio magistralis (funzione assai più adatta al papa teologo) alle prime pressioni dei professori laici è stata trasformata in “semplice” invito all’inaugurazione dell’anno accademico, (quella si, dovrebbe spettare ad un rappresentante illustre dell’università italiana).
Un quotidiano cattolico – “La Discussione” – propone oggi un’intervista ad un personaggio noto del pensiero destra, Giano Accame, che spiega in due parole come “il conflitto a sinistra si sia aggravato con la sostituzione del vecchio e massiccio mito dei lavoratori con le minoranze omosessuali come nuove immagini di riferimento” e poi: “Abbandonate le rivendicazioni sociali, su cui anche la Chiesa poteva convenire, [...] si è rotto l’equilibrio che aveva visto anche Togliatti impegnarsi per inserire all’art. 7 della Costituzione il rispetto del Patti Lateranensi conclusi da Mussolini l’11 febbraio 1929.”
Però dietro la “censura” a Benedetto XVI c’è qualcosa di più profondo, di filosofico.
E la si scopre solo andando a leggere un po’ più del misero stralcio del discorso di Feyerabend pronunciato da Cardinal Ratzinger nel 1990 e riproposto dai sapenti de “La Sapienza” come ragione e causa della interdizione papale al suolo universitario.
Leggendolo in “Svolta per l’Europa? Chiesa e modernità nell’Europa dei rivolgimenti” ci si accorge che il discorso incriminato di Benedetto XVI è nientemeno che la riconsiderazione critica di quel credo tecnologico (tecnocrazia, “tecno-logia” come nuova “ideo-logia”) che intesse così profondamente le nostre società.
E tale riconsiderazione si avvale di uno dei principi cardine della Scienza: la relatività costante d’ogni sistema di riferimento.
La vulgata newtoniana dello scrutare dalle spalle dei giganti è fin troppo eloquente sulle conseguenze di questo principio.
In molti hanno così dimenticato che nello stesso discorso il futuro papa Benedetto citava anche lo storico Bloch, in un passo in cui questi riconsiderava il sistema eliocentrico in chiave relativa: «Dal momento che, con l’abolizione del presupposto di uno spazio vuoto e immobile, non si produce più alcun movimento verso di esso, ma soltanto un movimento relativo dei corpi tra loro, e poiché la misurazione di tale moto dipende dalla scelta del corpo assunto come punto di riferimento, così, qualora la complessità dei calcoli risultanti non rendesse impraticabile l’ipotesi, adesso come allora si potrebbe supporre la terra fissa e il sole mobile».
Il principio è noto ai teologi e dovrebbe esserlo anche per gli scienziati che vogliano praticare gli orizzonti meta-fisici della loro disciplina, giacché colui che non ha conoscenze etiche e filosofiche non può pretendere di esercitare un potere sulla complessità dei geni o, più genericamente, sulla natura.
Fatto sta che sotto questa luce ogni scientifica convinzione si esaurisce nello sbadiglio di una equazione: una convenzione, cioè, atta a migliorare la razionale potenza di calcolo commisurata all’avanzamento scientifico “necessario”.
«Un antico sistema di riferimento umano e cristiano – prosegue Bloch e con lui Ratzinger – non ha alcun diritto di interferire nei calcoli astronomici e nella loro semplificazione eliocentrica; tuttavia, esso ha il diritto di restar fedele al proprio metodo di preservare la terra in relazione alla dignità umana e di ordinare il mondo intorno a quanto accadrà e a quanto è accaduto nel mondo».
Se si ammette il principio di relatività sistemica, non si può non arrivare infine alla più estrema delle relatività: quella dell’uomo di fronte ad un Dio, o – personalmente lo preferisco – di fronte al suo Spirito.
Si comprende allora in che misura, secondo Feyerabend, la revisione della sentenza contro Galileo possa essere chiesta solo in nome dell’opportunità politica.
Non è forse opportunità politica quella di una scienza che non conosce più le differenze che la separano dalla tecnica e che può difendersi solo dietro strumentazioni laiche indegne della già indegna Rivoluzione francese, rifiutando, peggio di allora, la pluralità delle idee e del pensiero?
Vogliamo davvero liquidare le profonde complessità dello Spirito in questo modo, annegate in scientology e nella new age?
Ridurre la scienza ad un insieme operoso di laboratori al servizio delle telecomunicazioni globali, della cosmetica, del petrolio?
Allora il pensiero applicativo viaggia già a velocità della luce. La teologia diventa un inutile strumento di comprensione della realtà, in quanto ciò che dobbiamo pretendere di sapere dal cosmo deve sempre rispondere a ragionevoli istanze di utilità.
Non è vero, come è stato ripetuto fino alla nausea, che la tecnologia sia “neutrale”, che dipende dall’uso che se ne fa, che c’è un uso “buono”, quello in cui la tecnologia è al servizio dell’uomo, contrapposto ad un uso “cattivo” in cui il rapporto è invertito. Il problema vero che, a più di due secoli dall’inizio della rivoluzione industriale, ci pone la tecnologia, non riguarda i suoi aspetti degenerativi, il disastro ecologico, gli inquietanti tratti dell’ingegneria genetica, la guerra nucleare, che sono teoricamente reversibili, ma proprio i suoi usi più utili e apparentemente innocenti, nella produzione, nell’informazione, nelle comunicazioni, nell’alimentazione, nella medicina, che appaiono ormai irreversibili.
Il dramma contemporaneo non è la corsa agli armamenti, ma la corsa ad uno sviluppo che non si èuò fermare. Non è la Bomba, ma la Tecnologia.
(Massimo Fini, La ragione aveva torto, 1985, p. 154)
L’università dovrebbe esser custode della scienza non in quanto mero instrumentum della tecnica, ma come “etica” di questa tecnica. Eppure le “riforme” del sistema del sapere e delle conoscenze contemporanee (un sistema negativo, che punta all’iperspecializzazione per impedire la formazioni di coscienze critiche e la realizzazione delle individualità) mirano alla formazione del monopensiero ed alla riduzione progressiva delle menti (anche e soprattutto quelle scientifiche) ad ingranaggi d’un contesto troppo grande, incomprensibile, autoalimentato.
Se siamo meccanismi di una macchina ce ne sfugge la complessità: ecco il senso delle riforme che sul modello anglosassone hanno sconvolto il “sistema” delle università europee ed italiane in particolare.
Una domanda vorrei porre ad i professori anonimi de “La Sapienza”: e cioè se non abbiano essi perso, oltre che la passione per la teologia, anche il gusto dell’italianismo associandosi con chi conia l’orrendo neologismo di “frocessione”.
Dalle sinistre, invece, “radicali” gradirei sapere se non sia il caso di chiedersi come faranno a difendere le minoranze religiose ed etniche, quando non riescono a dare la parola alla maggioranza della cultura del loro paese: quella cristiana.
Duole constatare come ancora una volta il nostro beneamato Illuminismo non tardi a rivelarsi per quello che è: un oscurantismo.