Al margine. Teatro. Morte. Crudeltà. Scandalo.
scritto sabato 7 aprile 2007 alle 23:47 Lunedì 12 marzo 2007 a Milano è censurata per la seconda volta in Italia la performance di Rodrigo Garcìa, Accidens – Matar para comer.
Seconda volta, giacché la prima risale a qualche anno fa, quando la performance venne presentata a Prato. E si respira una certa intenzionalità nell'operazione del regista: Garcìa sapeva (avendolo appreso sulla sua pelle nel 2002) dell'esistenza degli articoli 544-bis e 544-ter del Codice Penale (Legge del n. 189 del 20 luglio 2004) che Italia vietano uccisione e tortura in pubblico degli animali.
Ma l'intenzionalità dell'operazione artistica, la volontà di un pubblico supplizio, emerge anche dalle pagine del Manifesto, dove leggiamo l'indignazione del regista argentino in una lettera che potrebbe entrare ufficialmente a far parte dei suoi materiali testuali.
La missiva ha il tono duro delle equazioni etiche di Rodrigo Garcìa. L'attacco serrato del moralista che rivendica il valore etico dell'andare a teatro.
Il paradosso, infatti, in questo spicchio infinitesimale di mondo, è che la società, nella forma dell'OIPA e (per reazione) della Procura della Repubblica di Milano, rifiuta uno spettacolo teatrale.
Le parole giuste per parlare di questo paradosso ce le fornisce Garcìa:
[...] mi proibiscono di fare la mia performance. [...] Lo proibiscono i giudici con scarpe di pelle, giudici con borse di pelle, poliziotti con camicie cucite dai bambini dell’Asia e la gente della politica che permette che la televisione sia uno schifo e che nelle strade pubbliche proprio in questo momento un prodotto venga pubblicizzato con un bebè di sei mesi che pensa o sogna di comprare non so cosa.
Di fronte a tanta ipocrisia e violenza ancora esistono edifici chiamati teatri che si offrono alla città come spazi o selve di resistenza poetica in assoluta utopia.
Nella performance un astice è appeso al centro della scena e microfonato. Un attore parla. Alle sue spalle uno schermo proietta scritte ed immagini. Il brano What a wonderful world scorre. Poi l'attore prende l'astice, lo prepara e lo mangia.
Nelle crepe di questa azione scenica si annida un tema ricorrente della produzione di Garcìa, ovvero la riscoperta di un rapporto diretto, etico, con il cibo perseguito attraverso un processo di riconquista. A l'uomo massmediaticus consumatore di panini surgelati Garcìa oppone il gesto dell'uomo che torna a donare la morte per nutrirsi.
Il nodo della questione non è neanche valutare o meno della bontà dell'operazione di Garcìa.
Il nodo della questione è chiedersi perché una istituzione assecondi la censura per il teatro.
Perché censurare una forma di comunicazione artistica il cui ruolo è esattamente quello di entrare in dialogo con la società?
Aiutare la società a costituirsi in valore. E' questo l'esercizio faticoso del teatro.
Dietro la censura dello spettacolo di Garcìa si annida un fatto ben più cruciale del se sia giusto o meno uccidere un animale in scena. Dietro l'atto odioso del mettere la benda sulla bocca di qualcuno si vede la logica pragmatica e crudele di una società che sta smettendo di essere sociale. Una società che si schiera in maggioranza silenziosa e fa quadrato a difesa del conformismo e dell'omologazione. Una società che non si indigna di fronte a quanto le culture ufficiali siano sempre di più delle culture di regime.
Culture da maggioranza silenziosa.
L'ambientalismo diventa uno strumento di consenso.
La retorica della sinistra assimilata al sistema si fa portabandiera di cause mediocri lucidate di ambientalismo e terzomondismo e pacifismo.
Il gesto che l'attore di Garcìa compie in scena tocca le corde di un rimosso. Il rimosso della morte. Il riflesso catodico della morte è oggi esaltato e potenziato. Alla televisione, fra la pubblicità del deodorante e del telefonetto, assistiamo ogni giorno a fucilazioni, guerra, rapimenti, morte, distruzione. Alla televisione la morte aleggia.
Perché la stessa società che sta a guardare, che si nutre per somministrazione fluorescente di questa morte, resta urticata da un evento che ha coinvolto un attore, un astice e la platea, ovverosia un gruppo di persone ben più esiguo dello share dei giornali televisivi?
L'idea di morte è uno strumento potente di sollecitazione emotiva. Ma quando l'idea di morte si tramuta in pornografia l'azione del fluoro venefico dei nostri dentifrici Colgate è più potente.
La rimozione della morte è uno dei miti della nostra società: la pervasività, la sovraesposizione come ai raggi ultravioletti ad immagini di morte ne annulla la presenza nelle nostre vite.
L'ultimo grande sogno dell'edonismo tecnologico, l'immortale cyborg, sta arrivando.
Ecce homo.
Ejzenštejn ci suggerirebbe con il suo montaggio delle attrazioni, che l'associazione di due immagini provoca una sincope improvvisa a livello nervoso. La produzione immediata di una terza idea, una sensazione a metà fra il riflesso condizionato di una bestia ed il pensiero associativo.
La televisione è un linguaggio delle attrazioni.
La televisione è un flusso associativo di morte e sorrisi, continuo ed implacabile.
L'isolamento di un oggetto su una scena, invece, ha la facoltà di eliminare la patina di polvere che l'abitudine sensoriale ha depositato sul quell'oggetto.
La scena ha il potere di isolare e riportare alla luce gli oggetti, che vengono riscoperti nella cornice astratta del boccascena.
La mente effettua un'opera di ricostruzione dell'oggetto, entrando in speculazione con esso. Chiedendosi il perché della sua presenza e ragionando su di essa.
L'oggetto morte è il centro della performance di Rodrigo Garcìa.
Ed a teatro l'oggetto morte riacquista il suo valore perturbante. La morte non è più un fatto pacifico.
Una società come la nostra non può tollerare che questa morte ritorni.
L'immagine, l'idea di morte è uno strumento ad uso esclusivo dello status quo.
La morte privata di una distanza catodica di sicurezza costituisce un risveglio. Possiede una forza tanto più viva quanto più reale: è uno strumento semantico di potenza straordinaria.
La piccolezza del nostro italico «fait divers» ne fa anche l'enormità: la proporzione microscopica di quanto è accaduto a Milano mostra che non ci sono complotti e non esistono tavole sulle quali si decidono le sorti del mondo. Una associazione ambientalista italiana traduce un atteggiamento globale e entra a far parte della forza di un sistema che si perpetua da solo, senza guida, in modo pervasivo e generalizzato, e che impone il suo funzionamento direttamente nell'ipofisi.
Un sistema autorigenerante.
Garcìa riprende intelligentemente questo rapporto diretto e poetico che il teatro possiede con la percezione anche nella prosa della sua lettera aperta. Quando si appella alla coscienza di un "tu" lettore. Quando sollecita una reale indignazione.
Una scossa alla logica pavloviana cui siamo sottoposti dalla pervasività dei media, dalla meccanicità delle operazioni mentali di fronte ad internet, alla televisione, ad un box interattivo.
Come una nuvola elettronica il mondo non sopporta più l'assenza di luce. Esso si trasforma in un unico grande occhio in cui la sola forma possibile della fruizione è il voyeurismo. Centinaia di satelliti allungano le loro ombre sui nostri continenti. La visione totale e globale, la presenza dell'occhio ovunque: una attitudine panoptica è sollecitata. Guardare da dietro la scrivania del lavoro. Dietro un tubo catodico. Dietro uno schermo al quarzo o al plasma o al cristallo liquido. Dentro ad un telefono.
La logica del consenso inizia esattamente da qui. Dalla visione controllata e dosata.
Il che fa la forza ustionante di un evento imprevedibile come il teatro.
La capacità elaborativa che il teatro esercita sulle forme della comunità umana è l'ultimo eroico baluardo contro la civiltà della morte. Contro una comunicazione assoggettata alla meccanica ed alla serialità esiste ancora la presenza e la possibilità di sperimentare la morte.
Il contemporaneo esercita una azione di potenziamento vertiginoso della condizione di deiezione: l'allontanamento dal reale per la conquista di una dimensione completamente virtuale comporta una abitudine alla realtà, ed alla sua inautenticità.
Come ha intonato qualcuno, il teatro e lo spettacolo devono essere operazioni reversibili. A dire attori ed oggetti come giochi di scena.
L'evento multimediale, il DVD, il film, il digitale sono reversibili. Possono essere ripetuti e replicati all'infinito. Il pulsante «rewind» alberga placido su tutte le tastiere che ci troviamo a maneggiare ogni giorno.
La fenomenologia del fatto scenico sta esattamente al contrario di questa visione.
L'esperienza teatrale è una esperienza irreversibile. Si basa sulla concezione stessa della vita.
L'errore che l'attore compie è sempre reale e non può essere eliminato o tagliato.
Le molecole di cui sono composti il palco e le presenze che lo popolano sono reali. Il palcoscenico, ad ogni replica, è soggetto a cambiamenti irreversibili, minimi o grandi che siano. L'attore sulla scena invecchia e suda e perde le forze.
Il pubblico trasforma in immagine la realtà e la mente ne stilizza le forme. La compresenza del passato e del presente e del futuro all'interno della cornice scenica sono il principio stesso del mondo.
Il teatro non è un gioco televisivo.
E non sarebbe la prima volta che lo spettacolo utilizza la morte, se una tradizione come la tauromachia risale alla più lontana scoperta dell'Essere nel mondo occidentale, nella Grecia antica. Come un ammonimento, l'uccisione del toro stava e sta a ricordare i limiti della bestialità e della brutalità. Circondare in un cerchio magico la morte per esorcizzarla ed assimilarla al reale. L'allontanamento schizofrenico della morte nel mondo occidentale odierno è agli antipodi di questa metabolizzazione spontanea e rituale.
Al consumo corrisponde sempre consumo. E l'immagine di morte è consumata come il dopobarba o la gomma da masticare.
L'arte antica della corrida stabilisce un confine sottile fra uomo e bestialità.
L'utopia del teatro è l'irreversibilità della condizione dello spettatore che per un istante di visione smette di essere gettato nella realtà e ne torna a percepire l'autenticità.
Icaro verso la luce fino a perdere le ali.
[...] Incantevoli gli spazi del Teatro della Limonaia di Sesto Fiorentino. L’ambiente, anche, rilassato. Forte la carica emotiva per le mura ed il luogo, che in qualche modo hanno visto crescere che hanno il primato italiano della precoce scoperta di Rodrigo Garcìa. Meno incantevole invece l’evento che hanno ospitato ieri sera e che ospiteranno fino a domenica 16. E stavolta non è solo per la natura che diremmo “anti-estetica” del talento ispanico-argentino. Quello che è mancato è stato il picco emozionale. L’adrenalina e l’eccitazione funesta di Agamennone, ad esempio. O l’ironia graffiante di Ho comprato una pala da Ikea. E non si capisce se sia volontario (ma siamo nel terreno delle ambiguit di Rodrigo Garcìa) che il titolo – il lunghissimo titolo – A un certo punto della vita dovresti impegnarti seriamente e smettere di fare il ridicolo, rispecchi effettivamente una certa stanchezza nei movimenti; rispecchi la parabola discendente di una protesta che dopo quasi un decennio di contestazione dei loghi ha ora acquistato e sviluppato i suoi propri. Garcìa è troppo intelligente per non accorgersene. E allora ci risiamo? Siamo ancora alla fase del Comer mierda? La domanda in sala se la fa Garcìa e se la fa anche il pubblico. Ed eccoci accontentati: una tavola sul proscenio raccoglie una notevole collezione di stronzi fumanti. Dietro, un materasso fa da nido familiare. Appena a sinistra un tavolo delle torture che vorrebbe esser perturbante. Una bolla con un pesce dentro che non fa per sua fortuna la fine dell’astice in padella. Infine un boschetto da appartamento ed un tavolaccio. Visioni allucinate della famiglia, che si perde nella monotonia dei giorni di questo nostro Occidente Alienato: l’azione inizia con un piano doppio di rappresentazione, gli attori collegati a microfoni e rozzi altoparlanti ad occupare l’alcova d’amore. E poi questa alcova d’amore che si riempie di merda e vomito. La situazione che degenera. Si improvvisano azioni. Gli attori finiscono sepolti o innaffiati ad alta pressione. Tutto gi visto, certo, ma rimane la forza teatrale di alcune invenzioni. Rimane la forza di descrizione dell’oggetto e l’anarchica invenzione visiva. Rimane una gomma da cancellare enorme, sul fondo, che si consuma mentre gli attori decidono cosa cancellerebbero del mondo. E rimane un rotolo di parole ed interrogativi sull’ordine razionale e tecnocratico di questo mondo da cancellare: rotolo che si svolge dalla bocca e dal ventre dell’attrice, tirato (e letto) dal pubblico. Dico asino ad uno e compare un asino in scena: sono le attrazioni di Ejzenštejn che Garcìa usa a guisa di sintassi della scena; si tratta di una forza di suggestione che attraversa il senso delle immagini e gioca col linguaggio televisivo e pubblicitario. Gli attori tutto fanno e disfanno, stavolta si, nell’anarchia di una condizione anti-attoriale, distesa, colloquiale, con Luca Camilletti che esprime la sua esperienza al seguito dell’argentino e Jorge ed Agnès che si esprimono in spagnolo e snocciolano un italiano stonato. Ma è forza espressiva persa – a malincuore – nell’assenza di lacerazione. [...]