Damiàn Ortega al Pompidou. Rivoluzione impressionista.
scritto lunedì 16 febbraio 2009 alle 17:50
La fine dell’esposizione che abbiamo visto al Centre Pompidou dedicata a Damiàn Ortega è lo spunto per affrontare l’attività di questo eccezionale artista, ma anche il punto di partenza per una riflessione sull’attualità del motivo impressionista nell’arte “ultra-moderna”. Visto attraverso il “Campo di visione” dell’artista messicano, il problema della percezione sollevato alla fine del secolo XIX dagli impressionisti sembra essere ancora il brodo primordiale delle avanguardie che si spingono sul campo della critica della società della comunicazione.
Ortega, prima di tutto.
L’installazione presentata al Centro Pompidou dal 13 novembre al 9 febbraio, intitolata “Champ de vision” si apre con un cartone a matita in cui la tavola periodica degli elementi di Dimitrij Mendeleev è rappresentata a spirale, dall’idrogeno, posto al centro, fino agli elementi più complessi. Così come sono disegnati da Ortega gli atomi rispondono alle teorie dei quanti: sono composti da due lastre circolari, inserite perpendicolarmente l’una nella metà dell’altra, come due monete fuse assieme.
Il cartone introduce al secondo ambiente, una stanza di duecento metri quadrati dove le stesse molecole, realizzate in plexiglass di quattro colori differenti, sono sospese nel vuoto; ancorate a dei fili di nylon trasparente formano 12 barriere.
Il visitatore è invitato ad attraversare le intercapedini di questa nuvola di molecole trasparenti in CMYK.
Sembra di attraversare un gas visto al microscopio a scansione.
Una questione di colore.
È una riproduzione della materia ingigantita fino all’atomo. Ma ci si accorge quasi subito che la sospensione delle molecole deve rispondere ad una qualche logica ottica.
Ogni filo di nylon ripete un ordine sempre diverso, ma in qualche modo simmetrico. I colori impiegati sono gli stessi della riproduzione del colore in tipografia. Ciano (C), Magenta (M), Giallo (Y), Nero (K): quadricromia. La trasparenza del plexiglass consente la sovrapposizione del colore.
Il pixel o la pennellata impressionista.
Intercapedine dopo intercapedine le molecole si restringono. Il piano di riflessione della luce si riduce, come a descrivere due linee di fuga prospettica. Dietro un muro, infine, si può osservare la nuvola multicolore da uno spioncino.
Ma l’immagine complessiva qui si condensa in uno sguardo. All’occhio è restituita l’immagine di un occhio, di tanto in tanto attraversato da un visitatore.
Ortega ha usato gli stessi principi dell’impressione ottica studiati dalla pittura impressionista, per cui la luce è somma di un insieme di singole impressioni sensoriali della retina. Ma se in quella pittura positivista il processo rimaneva ancora sostanzialmente artigianale, con la stampa serigrafica la tavolozza ottica si riduce a quattro elementi.
Infine, nella rappresentazione ipermediale (che emette luce) la tavolozza si riduce ulteriormente a tre colori. Il rosso, il verde, il blu: RGB.
Questa riduzione ad infimo ha una portata fortemente simbolica; è una questione semantica, dunque strettamente collegata all’idea di codifica del mondo attraverso un linguaggio.
“Parlare il mondo” non è percepirlo passivamente, ma interpretarlo.
La weltanshauung (ed in particolare quella delle nostre società, votate alla comunicazione assoluta e mediata) si esprime anche e soprattutto nella forma del linguaggio. Del resto, tornando al problema della frammentazione dell’immagine tipografica in quattro singoli colori, questa osservazione della realtà in quadricromia non era sfuggita alla pop-art, che la immolò a simbolo stesso della cultura di massa.
Ma il gusto pop caratterizza l’attività anche precedente di Damiàn Ortega, che per la Biennale Arte 2003 sospendeva con gli stessi fili di nylon un maggiolone completamente smontato, “esplodendolo” in guisa di manuale di montaggio a dimensioni reali e tridimensionali.
In “Campi di visione” con linguaggio ancora pop, ironico ed irriverente, Damiàn Ortega non realizza solo l’ingigantimento al microscopio della materia, ma espone in un colpo una buona parte delle declinazioni specifiche della weltanschauung occidentale.
La realtà come gas. Filosofia interminabile dell’indeterminabile.
In fisica si osserva la progressiva sparizione della materia corpuscolare, per cui un oggetto (l’occhio della mostra), è la somma non solo di una quantità di atomi elementari, ma anche di una serie di vuoti.
Le più recenti teorie fisiche sulla struttura della materia si concentrano sull’indeterminazione: la materia è descritta più come una nuvola gassosa, (o come “corde” vibranti), che come insieme retificato e più o meno gerarchizzato di molecole.
Gli atomi sono così sempre “delocalizzati”, ovunque ed altrove, in perpetuo movimento.
La visione della materia della nostra società liquida sembra distante anni luce dalla gerarchizzazione delle molecole, immaginata invece dalle società che produssero anche i grandi stati burocratici.
La riduzione della materia a molecole sempre più elementari ed ineffabili è l’altra faccia della scatola ottica dalla quale il razionalismo osserva il mondo. La corsa ad infimum diventa una corsa ad infinitum, ciclo di riduzione perpetua ed incessante in cui la materia esplode, fino alla sua totale ineffabilità.
O fino ad ingoiare il mondo che conosciamo, lo spazio ed il tempo, come alcuni vorrebbero accada al CERN di Ginevra.
« […] Esistono delle vaste superfici bianche o vuote nel mezzo di una immagine apparentemente satura di colore. Si può osservare lo stesso fenomeno per gli oggetti solidi. Se si guarda la loro composizione molecolare, si scopre una grande quantità di vuoto fra gli atomi che lo compongono. Come può un oggetto esser solido e duro se contiene tanto vuoto? Ciò si deve al fatto che i suoi atomi sono costantemente stimolati e muovendosi formano un campo di tensione. Per illustrare mentalmente questo fenomeno, ci si può servire dell’immagine di una palla in gomma legata all’estremità d’una corda, che giri vorticosamente attorno ad un asse. Se siamo incapaci di dire dove si trova di preciso la sfera, è altresì possibile stabilirne il perimetro di rotazione. »
(Estratto dell’intervista a Damiàn Ortega di Anna Hiddleston e Sinziana Ravini, traduzione mia, n.d.r.)
Analoga la concezione contemporanea della percezione ottica, che nei suoi aspetti fisiologici e cognitivi è descritta come una sorta di processo di elaborazione digitale. Le frequenze luminose sono porzioni minime di stimoli: la scomposizione della luce in trame elementari porta con sé la possibilità di riprodurla attraverso algoritmi matematici.
L’immagine diviene informazione e segnale: “piège visuel”, essa si conforma alla tendenza di tutti i linguaggi contemporanei. Anche nel web semantico il messaggio e la sua fonte sono sempre più indeterminati: esistono ovunque e da nessuna parte. E la cosa riguarda sia il messaggio in sé (la provenienza e la tipologia dell’informazione sono sempre più indeterminabili) che il supporto di lettura (per il momento gli schermi) ma anche il supporto fisico in cui esso è registrato: insieme di sequenze elementari di codici, stivate ovunque e da nessuna parte, svilite del loro valore specifico.
Uomo de-localizzato come la materia che immagina e vede. La replicabilità infinita del messaggio contribuisce paradossalmente alla sua dispersione.
Per tornare al sistema delle arti, facciamo un’ultima considerazione: la scatola ottica in cui è confezionata l’installazione di Ortega è ispirata ai principi dell’ottica rinascimentale. Il che sposta indietro ancora nel tempo il limite di inizio del movimento di sintesi razionale della sfera cognitiva.