gelatina & fotoni: ancora arabi [parte I]
scritto venerdì 6 giugno 2008 alle 20:03Questa volta hai proprio esagerato.
O è Parigi che ha esagerato.
O la televisione.
Quella però, a dire il vero, esagera sempre.
E quindi non mi trovo a navigare, stavolta, ma mi sto nei miei pensieri.
Lo sguardo si chiude dentro al parallelepipedo della scatola ottica.Quadrato di specchi quadrati.
Dicono che dalla scatola ottica la realtà sembra più bella.
Essa è più lucida.
Indurisce i bordi passando per la lucentezza del vetro. E’ sempre luce.
Ma è luce più bella.
Tre dimensioni.
Ma che dici? Hai bisogno della terza dimensione per farne due?
Hai bisogno di eliminare per avere un punto di ripresa?
Il punto di ripresa è ciò che ora, qui, stai escludendo.Forse avresti dovuto escluderlo da subito? Che dici? O vuoi che tutti i dettagli siano sempre regolati?
Ed allora mi ritrovo sempre più spesso con l’occhio piantanto sul lentino ed il lentine dietro al cubo di vetro ed il cubo di vetro col suo specchio e con la sua proboscide telescopica davanti che prende l’immagine.
La gira e la rivolta, e rispetta tutte le simmetrie.
Specchio glacialeimplacabileetereo.
La passa dentro la mia testa che la fa passare attraverso un
miliiiiiiiiiiaaaaaaardoooooooooooooodimiliaaaaaaaardiiiiiiiiiii
di impulsi neuronici.
Come cascata di chimica.
Come allucinazione.
Come una quadratura più rotonda del mio sguardo periferico.
Riduco lo sguardo perifico dentro un apparecchio per prendere la realtà.
Me ne impossesso.
La sviluppo a mio piacimento.
Anche quella volta mi trovo così.
Sono matto.
E tiro metri su metri di polimero violettotrasparente e gelatine a dismisura ed acidi per lavarle e luci per guardarci attraverso.
Il processo della luce.
Che copia in negativo ciò che entra in positivo e torna negativo e torna positivo in un processo di trasformazione e reversibilità virtuosa.
Reversibilità della luce.
E’ per questo che non si deve credere a luce e luminescenze.
Esse ingannano e s’invertono.
Rubano, esse, il vero al vero.
Ed allora?
Allora in tutti questri kilometri di pellicola una volta mi prendono per una spalla.
Mi mostrano un distintivo tirato fuori dal giubottaccio di pelle.
Mi vogliono togliere la macchina e la pellicola e tutto.
Mi distruggerebbero anche il cervello.
Lo esporrebbero alla pioggia aggregante dei fotoni.
Me lo opacizzerebbero al nero o al bianco della totale assenza di contrasto.
Sto fotografando un ministero.
Sono davanti al lago dell’EUR.
Mi salvo solo dopo qualche ora.
E salvo pure le pellicole.
“Marescià, ma lo lasci stare, chiss’ studente di fotografia è…”
Ed allora?
Allora mi proietto a qualche mese più avanti.
Giu per la discesa della rue faubourg du temple.
Sempre lì, te: sembra che tu non veda altro, no?
No.
Non vedo altro.
Vedo solo il fiume incessante della gente sul lucido del pavé appena lavato.
Vedo la llllllllllllllllllluce di una sera rossa che scorre sotto i miei piedi.
E vedo dalla distanza di dieci millimetri TUTTO IL MONDO.
Da un OCCHIO come se fossi un
polifemo meccanico.
In locomozione verso il fiume della folla che compra e mangia e parla e puzza e profuma e guarda.
E questo occhio mi si chiude e passa facilmente a raffiche di NEROCIECO.
A raffiche che prendono il tempo e lo arrotolano su una stringa di 120 cm (e qualche ritaglio).
Vedo tutto questo.
Il mondo e più bello se capovolto e riaddrizzato dall’occhio di una reflex.
Ma quella volta.
Sorpresa.
paris mushrooms » gelatina & fotoni: ancora arabi [parte I] – artMobbing’s mind
storia di violenza e integrazione a parigi.
arabi.
quando una foto diventa aggressione.
quando una foto ruba l’anima.
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