il sessantotto da uno che nOn c’era [II]
scritto sabato 15 marzo 2008 alle 19:11
È davvero un progetto ambizioso, quello di Giuseppe Spezzaferro, scrivere una storia del Sessantotto dalla parte di chi c’era davvero per “farci entrare dentro chi non c’era”: segno di una urgenza, che sottolinea quanto sia importante oggi una riflessione sul movimento studentesco lontana dalla retorica telegiornalistica e giovanilistica.
Non solo. L’obiettivo di internettuale è di fornire una testimonianza dalla parte di chi ha vissuto un senso di appartenenza e di chi questo senso di appartenenza se lo è portato dentro, applicandolo integralmente alla vita, senza compromessi.
Senza passaggio alla politica.
Del resto sembra proprio questo il male del Sessantotto, il passaggio alla politica, che corrompe necessariamente l’ideale negando la possibilità “semantica” della rivoluzione.
Ecco la crudeltà del Sessantotto: scoperta dell’informazione mediatica, espansione istantanea delle conoscenze.
Si corre verso lo spazio: cosa è la corsa allo spazio se non una visione radicalmente diversa, globale, dell’umanità? Inizia, nel Sessantotto, l’idea che il mondo sia una pallina da guardare da fuori.
La fotografia ed il filmato: le tecnologie dell’immagine entrano prepotentemente nella vita di tutti i giorni.
Il mondo come scenario da registrare.
Si inaugura la dimensione panoptica del contemporaneo.
Ciò che stupisce è l’apporto originale del “gruppo del Teatro”: un apporto singolare che spinge Giuseppe Spezzaferro a parlare di un Sessantotto come storia di uomini e di idee, avventura di gruppi ben distinti, più che movimento globale.
Ed è questo un approccio ermeneutico in perfetta concordanza con l’altermondialismo del gruppo del teatro: un altermondialismo che non si basava sulla scelta di altri mercati (e quindi di una etichetta biologica in luogo di quella tradizionale) ma sulla contestazione radicale di una barbarie etica. Quella americana.
Percorrendo la storia ideologica del movimento del gruppo del Teatro ci troviamo allora di fronte a posizioni paradossali, almeno da un punto di vista contemporaneo.
Da un lato l’autodeterminazione dei popoli, assunta come principio fondamentale a regolazione della politica internazionale; dall’altro una identità europea forte: un passaggio che il tempo sembra avere contraddetto, se pensiamo come il principio di autodeterminazione sia stato usato, ieri ed oggi, per l’affermazione delle ragioni dei più forti.
Pensiamo a livello locale agli indipendentismi della ricchezza: il nord-est italiano, i Paesi Baschi e la Catalogna in Spagna. O livello internazionale al recente esempio del Kosovo, anche se il Medio Oriente sarebbe a sua volta ricchissimo di esempi di autodeterminazione per così dire “eterodotta”, che del resto, l’Italia ha vissuto nel suo passato napoleonico.
Quale Europa? Qui la posizione di un capitalismo umano è modernissima, così come è moderna l’idea che una Europa delle banche potesse essere un terreno di confronto già in qualche modo politico.
Ma stupisce che queste posizioni venissero proprio da lì. Proprio da quell’estremismo giovanile da cani sciolti, quando oggi ogni radicale si caratterizza da idee del tutto opposte.
Cosa ne ricaviamo? Innanzi tutto che l’idea della contestazione radicale, nuda e cruda, o di una sinistra oltranzista e senza compromessi, è uno strumento del sistema dominante, affermatosi appunto definitivamente con il Sessantotto. Se ammettiamo questo, e cioè che la rivoluzione sia divenuta uno degli strumenti più potenti di merchandising (soprattutto non solo politico), allora possiamo capire da quale Sessantotto il terrorismo provenga.
Ed è quello il Sessantotto che ha vinto.
Leggi su internettuale.net:
Il sessantotto da uno che c’era (parte I)
Il sessantotto da uno che c’era (parte II)