il sessantotto da uno che nOn c’era [I]
scritto giovedì 6 marzo 2008 alle 23:19
Rispondiamo a internettuale.
Con il ‘68 il processo di omologazione ha avuto una accelerazione esponenziale.
Il ‘68 ha abituato tutti alla moda. Tutti al consumo.
Il ‘68 ha reso più digeribile la disgregazione dell’unità fondamentale delle nostre società, la famiglia; ed ha affermato con maggiore vigore la corrispondenza diretta fra scienza e pragmatismo.
Nuovo Illuminismo?
Il ‘68 ha trasformato i vecchi bisogni in necessità e ne ha creati di nuovi.
Edonismo fa rima con ‘68.
Il punto però è che proprio l’incoscienza che qui si evoca con tanta forza donava a questo edonismo delle insolite qualità.
Il ‘68 ha esplorato un terreno per certi versi vergine e questa virginalità – la scoperta di nuove, inattese possibilità – lo rende una specie di peccato originale del nostro tempo. Ed il peccato originale (in barba ad ogni teologo) è meno grave, perché è primigenio, non conosce la detestabilità della perseveranza.
Primi in tutto i sessantottini.
E questo primato ci suggerisce prospettive virginali, innocenti.
La società era un foglio bianco, bastava impugnare la penna e disegnare.
Il ‘68 è stato muovere i primi passi nel candore della neve appena caduta.
Le orge di woodstock appaiono un esempio puro d’amor libero.
Le droghe chiavi per aprire nuove porte.
Twiggy un essere etereo, mediante una magrezza inedita il corpo diventava trasparente.
L’autostrada l’arteria dentro cui pompare un nuovo modello di sviluppo e comunicazione una nuova forma mentis: la velocità.
Le immagini dei beatles che rimbalzavano da un capo all’altro del mondo creavano una nuova, rassicurante, “prospettiva domestica globale”: si scopriva che ci si poteva sentire a casa anche in Giappone.
Oggi, nell’ordine: perversioni sessuali, tossicodipendenze, anoressia, atteggiamenti compulsivi, manipolazione delle masse.
E proprio sulla onnipresenza dei beatles nei media vale la pena soffermarsi: è da lì che inizia la società contemporanea dello spettacolo (il tanto criticato showbitz). Dovremmo puntare il dito contro questo inizio, analizzarlo criticamente, ma non possiamo non sorridere dell’innocenza dei fab four, del loro sguardo a quel mondo che proprio allora cominciava a diventare piccolo come un mandarno.
La società odierna è frutto del ‘68, è vero.
E l’immagine positiva con cui ricordiamo il ‘68 ha contribuito a renderlo integrale.
Oggi, per paradosso, siamo integralisti di quella contestazione e di quella libertà, tanto che ne siamo diventati schiavi.
Tanto che non comprendiamo più bene cosa fare di questa libertà.
La degenerazione sta forse nell’assenza di questo romanticismo da “prima volta”, nella trasformazione delle menti fin nelle profondità neurali di un linguaggio che ha voluto prendere i segni esteriori di quella rivoluzione senza riuscire a costruire una “ermeneutica della libertà” (o ermeneuitica della rivoluzione?).
Ed è così che quella distesa di neve bianca, calpestata e ricalpestata dopo il primo, mistico, attraversamento è oggi fango e poltiglia.