Topografia Berlinese. Pelle.
scritto domenica 25 marzo 2007 alle 16:30 Sono segni inequivocabili. I segni della guerra.
Berlino ha una geografia lineare immensa. Ortografia del massacro, forza semantica e potere significante.
Rasa al suolo. Come Dresda. Più di Dresda.
Rasa al suolo e poi spaccata in due come una mela.
Su un corpo vivo la cui la pelle rinnova lasciando dietro di sé la scia del chiarore cellulare la città assorbe e restituisce la sua storia.
Il magnetismo di Berlino è il magnetismo della storia.
Città di guerra al di là del segno esteriore delle mitragliate sulle pareti del Pergamonmuseum.
Città di guerra per il chiarore del marmo nuovo incastrato in quei fori che nel '45 segnarono l'epidermide e la schiena stessa della porta di Brandeburgo.
Segni esteriori più sottili, al di là dello stesso esercizio di memoria a cui volgarmente la città è stata costretta ad esercitarsi, prima con la violenza della frattura del muro e poi con la demagogia di una ginnastica architettonica che evoca l'olocausto così come abbatte il muro per lasciare spazio al Sony Center.
L'asse arrivava fino a Tokio, n'est-ce pas?
Perché costruire una città sullo stesso luogo, si domanda il materialista?
Perché ripristinare edifici e fondamenta, rinsaldare il tessuto strappato della città quando sarebbe più facile trasformare il cumulo di macerie in un enorme mausoleo e spostarsi più a nord o a più sud dello Sprea?
Dimentica, il materialista, che la causa potrebbe essere la pericolosità di una città al crollo, abbandonata. Insediamento di truppe e battaglioni da panorama postatomico. Le moto che sfrecciano sulla polverosa Unter Der Linden.
Il che non sarebbe neanche cosa nuova visto quello che è successo da quelle parti. Parate naziste e squadroni delle SS. La notte dei lunghi coltelli. Le sfilate. Il rogo dei libri. L'entrata dell'imperatore.
E non sarebbe nuovo neanche per il nichilismo che impregna, letteralmente, i muri, le strade, i giovani agli angoli dei metro, quelli agli angoli dello Zoologischer Garten, quelli in nero che bevono vodka e fumano sigarette con facce solenni e mortali.
Le tracce degli anni ottanta. Le tracce dell'est povero e postcivilizzato stanno nei "chiodo" di pelle, negli stivali alti, i jeans stretti alla caviglia. Resta nelle spillette in metallo scritte in cirillico vendute agli angoli delle strade.
Una città risorge sullo stesso punto per conservare un valore simbolico. Istanbul non è mai stata Troia, benché a pochi chilomitri di distanza e con una forza strategica e geopolitica equivalente.
Roma lo sapeva e sparse sale su Cartagine, così da evitare la rinascita dell'essenza politica e bellica di tutta l'africa mediterranea.
Berlino si sviluppa sullo stesso luogo, ancora una volta. Ma la sua ortografia è ancora pericolante. Il verde invade il centro, nella misura in cui il centro odierno è la periferia di due città fuse fra loro.
Due città con un cinquantennio ben differente. Due periferie una faccia all'altra. E per di più in centro.
Berlino: periferia centrale.
Il ricco ovest relegava i tossicodipendenti al suo est, con il Tiegarten come zona cuscinetto piantata fra città e muro.
Logico dal punto di vista bellico.
Ragazzi dello zoo di berlino. Relitti della civiltà occidentale e della deviazione edonistica dell'ovest, sbattuti ad un passo dall'occupazione militare, ad un passo da quella barriera che simbolicamente spaccava Postdamerplatz e – passando per la porta – interrompeva il rapporto di continuità della città con la regione del Brandemburgo.
Ad un passo dal giardino zoologico c'è Charlottensburg. Città residenziale di lunghi autunni berlinesi. Ad est, proprio di fianco al centro storico insediato sull'isola dei musei, terreni vuoti, all'abbandono. Terreni per carri armati e controlli alla frontiera.
A sud est la vita, dura, dell'occupazione socialista. Kreuzberg, trasformato in ritrovo dell'omosessualità berlinese, quartiere verde e decadente.
Mai una svolta in un vicolo. Mai un quartiere che abbia una fine chiara e determinata.
Un continuo sfumare dall'architettura ultramoderna alla periferia. Più periferie.
Berlino è ancora un campo di battaglia.
La seconda guerra mondiale. La guerra fredda. Oggi: la guerra postmoderna al consolidamento di una topografia inedita e che ne faccia la nuova capitale della Germania.
Le gru lavorano ancora su una superficie immensa. Un superficie che contiene laghi e canali e campagne e quartieri sterminati. Nel ring freme la nuova civiltà del vetro e dell'acciaio. La Fernsehturm, invadente e surreale. Punto di orientamento e totem sacro piazzato al centro della distesa di cemento (ancora piena di "Terrains vagues", improbabile nel centro di una qualsiasi altra città) della Alexdanderplatz. Il nuovo Reichstag.
Intanto i vecchi simboli del regime sono lasciati (simbolicamente…) ammuffire: la vecchia zona amministrativa, grigia e razionalista.
Da una parte gli edifici dei ministeri. Giusto davanti filo spinato e reti. Le macchine che percorrono lo stradone.
Il razionalismo, il nichilismo.
Bahuaus della Volksbuhn. Il sogno tecnologico socialista ha investito questo paese per ben due volte, nella storia. Lo si legge e lo si respira in questa città priva di centro. In questa città di rette infinite.
Di prospettive prima che di boulevard.
Costruire a nord dello Sprea?
È forse l’illusione che un mausoleo di così efferato ricordo sia monito per umanità, che faccia riflettere gli uomini su dove allora era Dio, e su quanto feroce sia l’animale uomo.
Ma forse hai ragione, è solo una illusione! Nascondere le rovine e il passato sotto strati di civiltà aiuta a dimenticare.
Troia Cartagine Berlino sono solo esercizi di memoria.
IL MATERIALISTA.
Vedo il mio blog nei tuoi preferiti. Grazie davvero! Un saluto
Anche Albert Speer avrebbe raso al suolo gran parte della città. Per farne il centro dell’umanesimo del terzo millennio…
“Una città di rette infinite”. Una frase che vale un libro su questa città. Non so come sono capitato qui, ma ci tornerò. Spesso.
Saluti,
Marcello
Grazie per l’apprezzamento, Marcello.
E speriamo che alle prospettive dell’acciaio l’Europa sappia finalmente associare anche quelle dell’umanesimo.